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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

CURE (Kyua), KUROSAWA Kiyoshi, 1997

Speciale Far East Film Festival 21-29 aprile 2023

di Dario Tomasi

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Insieme a Ring (Nakata Hideo, 1998), Audition (Miike Takashi, 1999) e Grudge (Shimizu Hiroshi, 2000), Cure è uno dei film che più hanno determinato il successo internazionale della prima stagione del J-Horror e contribuito ad affermare uno dei maggiori autori del cinema contemporaneo, giapponese e non. 

Tokyo. Il detective Takabe sta indagando, insieme allo psicologo criminale Sakuma, su una misteriosa serie di omicidi le cui vittime sono tutte segnate da una ferita ad “X” sul collo. Alle difficoltà del compito, si aggiungono, sul piano personale, quelle provocate dalla malattia mentale della moglie Fumie. Takabe riesce alla fine a rintracciare Mamiya, un giovane che ha perso la memoria e che ha incontrato tutti gli autori degli omicidi poco prima che questi avvenissero. Enigmatico e imperturbabile, Mamiya suscita l’esasperazione di Takabe che finirà col perdere il controllo della propria esistenza, divenendo, a sua volta, un nuovo seminatore di morte. 

Horror metafisico, dai toni e dai colori tarkovskiani, retto da lunghi e inquietanti movimenti di macchina, che insieme allo spazio percorrono il tempo, Cure è un film che indaga l’inafferrabilità dell’animo umano e i recessi del suo inconscio. Il personaggio di Mamiya – le cui azioni sono comparate da Sakuma a quelle del “diavolo” – non fa che, ad ogni suo incontro, portare a galla quelle che sono le inquietudini più o meno nascoste del suo interlocutore, offrendogli, attraverso un omicidio, la possibilità di scaricare le proprie frustrazioni e liberarsi (illusoriamente) da esse.  L’impiegato, per vergogna, uccide la prostituta; il poliziotto, per astio, spara al collega che non sopportava e con cui era quotidianamente costretto a condividere uno spazio di pochi metri quadrati; la dottoressa, che, forse proprio perché donna, non è riuscita a diventare un chirurgo come avrebbe voluto, taglia la gola a un paziente di sesso maschile (e, quasi a voler rendere più esplicito il senso del proprio gesto, lo fa in un bagno pubblico per uomini) [1].

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[1]

Sembra sfuggire a questa serie di frustrazioni il maestro elementare, ma non è possibile dimenticare che quando Mamiya gli chiede di parlargli della sua vita questi risponde che non c’è altro che il suo mestiere di maestro e il suo matrimonio, forse… troppo poco. Lo stesso detective Takabe, dopo aver incontrato Mamiya, immagina, in una scena che nelle prime battute il film ci mostra come reale, il suicidio della moglie, realizzando così, nel suo immaginario, il proprio nascosto e inesprimibile desiderio di potersi liberare da essa e da tutto ciò che il suo disagio mentale gli causa [2].

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[2]

È un mondo invivibile (come il vero?) quello che propone Kurosawa. Un mondo fatto di colori putrescenti, luoghi abbandonati e in distruzione, spazi apocalittici, a volte troppo stretti, altri troppo grandi [3], segni di quotidiana follia – su tutti il più angoscioso: quello della lavatrice vuota che Fumie, la moglie di Takabe, aziona ripetutamente in casa senza un perché, se non quello della sua follia –, oggetti e corpi instabili che inesorabilmente precipitano a terra, come del resto sembrano fare le relazioni umane, in una realtà dove l’unica possibile condizione di vita pare essere quella della solitudine e della sua dannazione. 

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[3]


Titolo originale: キュア (Cure); regia e sceneggiatura: Kurosawa Kiyoshi;  fotografia: Kikumura Tokushō;  scenografia: Tomoyuki Maruo, Suzaka Fumiaki;  montaggio: Suzuki Kan; musica: Ashiya Gary; interpreti e personaggi: Yakusho Kōji (detective Takabe Ken’ichi), Hagiwara Masato (Mamiya Kunio), Ujiki Tsuyoshi (Sakuma Makoto), Nakagawa Anna (Fumie, la moglie di Takabe); produzione: Daiei; durata: 112’; prima uscita in Giappone: 27 dicembre 1997. 

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