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SONATINE CLASSICS

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Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

THE RIVER FUEFUKI (Fuefukigawa), KINOSHITA Keisuke, 1960

Speciale Keisuke Kinoshita

di Paolo Torino

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Rivette, nel giugno del 1961 (Jacques Rivette, De l’abjection in “Cahiers du cinéma”, n.120, Francia, 1961) scriveva in merito a Kapò (1960) di Gillo Pontecorvo “[…] l’inquadratura in cui la Riva si suicida gettandosi nel filo spinato percorso dalla corrente elettrica; l’uomo che decide, in quel preciso momento, di fare un carrello in avanti per inquadrare di nuovo il cadavere dal basso […] quest’uomo non merita che il più profondo disprezzo. La scelta di questa precisa citazione è motivata da due fattori: la prima è che le (molte) carrellate di Kinoshita, di morale, non hanno nulla. Il regista abbandona ogni tipo di moralismo per abbracciare una dimensione prettamente estetizzante, in cui pittura, sogno e cinema si mescolano alla perfezione; la seconda è la buffa coincidenza cronologica tra l’uscita di  Kapò e quella del film in oggetto… chissà cosa avrebbe scritto Rivette di The Fuefuki River

 Tratto dall’omonimo romanzo di Fukazawa Shichirō, il film narra la storia della famiglia Takeda,  composta da Sadahei (Tamura Takahiro) e Okei (Takamine Hideko). Di origini contadine, i coniugi dovranno far fronte alle varie vicissitudini che il duro periodo serba per loro. La peggiore, però, è quella di vedere i propri figli, Sozo (Matsumoto Kōshirō) e Yasuzo (Nakamura Kichiemon), diventare dei samurai e partire per una guerra da cui, probabilmente, non torneranno mai. 

In Port of flowers (1943), film d’esordio di Kinoshita, il carrello aveva una connotazione diversa, differente, rispetto a quella che ha in The River Fuefuki. Nel primo film, ad esempio, c’è una carrellata che sfida le leggi dello sguardo – molto simile alle dinamiche del piano-sequenza di Michelangelo Antonioni nel finale di Professione: Reporter (1975) – : i personaggi inquadrati, dopo essere stati redarguiti per aver dipinto cose che non dovevano dipingere, sono sorpresi e spaventati dall’obiettivo che attraversa pertugi inattraversabili. Quel movimento di camera, in cui la regia non dissimula per nemmeno un secondo la propria presenza, mima l’occhio del potere che arriva dove  vuole (fig.1).

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Fig. 1

In The River Fuefuki, al contrario, Kinoshita associa al carrello uno sguardo voyeuristico: vediamo la camera muoversi elegantemente tra i campi da battaglia per vederne i cadaveri, tra le mura domestiche per spiare le varie liti familiari o, ad esempio, durante un rito funebre in cui, da lontano, filma le modalità di sepoltura. In questo senso sono emblematiche le due sequenze sui campi da battaglia che aprono e chiudono il film: nella prima, una carrellata mostra i cadaveri prodotti dalla guerra (fig.2); nella seconda, invece, il carrello, proprio come quello di Kapò, si sofferma sui corpi della protagonista e di una bambina che giace al suo fianco (fig.3), restituendo anche un’idea di circolarità, sia degli eventi narrati che di raccordi visivi tra le due sequenze. 

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Fig. 2

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Fig. 3

Un’altra caratteristica, che non passa inosservata, è l’utilizzo del colore. Kinoshita ne fa diversi usi: il primo, pleonastico, è quello di attribuire alle ambientazioni il proprio colore naturale (es. prato – verde, cielo – azzurro); il secondo, invece, è quello di usare il colore per accentuare particolari momenti del film, ad esempio il blu per esaltare la natura fantasmatica (fig.4) oppure orrorifica (fig.5) di un personaggio; 

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Fig. 4

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Fig. 5

il terzo e più complesso, è quello di disarmonizzare la composizione figurativa in virtù di una ricerca spasmodica dell’imperfezione. Quest’ultimo è un concetto che deriva dallo Zen e si lega essenzialmente al maxia: in alcune inquadrature, Kinoshita, sembra dipingere con rapide pennellate direttamente su pellicola, creando un effetto in cui la composizione geometrica del quadro è messa in crisi (fig. 6,7,8). Stando alle parole di Suzuki Daisetz (Lo Zen e la cultura giapponese, Adelphi, Milano, 2014, p.42.) infatti: “lo stile maxia e l’essenzialità delle pennellate contribuiscono inoltre ad allontanarsi dalle regole convenzionali. […]. Le mancanze o i difetti sono evidenti, non c’è dubbio, ma non vengono percepiti come tali; anzi, l’imperfezione stessa diviene una forma di perfezione. […]. Questo è stato uno degli escamotage preferiti degli artisti giapponesi: incarnare la bellezza in una forma imperfetta […]”. In queste inquadrature il colore non è “impresso” utilizzando una tecnica dispersiva come il dripping di Pollock, ma è posizionato in maniera precisa in alcuni punti dell’inquadratura per far sì che la composizione perdesse equilibrio: la ricerca dell’imperfezione come forma di perfezione, per l’appunto. 

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Fig. 6

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Fig. 7

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Fig. 8

The River Fuefuki è un’opera d’arte totale in cui convergono pittura zen e cinema. Un caleidoscopio dove i colori e le sequenze allucinate guardano la storia contropelo, diventando teatro di fantasmi e corpi, senza mai avere la necessità di occupare il racconto con uno sguardo personale. Kinoshita sa che le vicende sono lì,  si limita a filmarle con sguardo da voyeur, intrufolandosi tra le piaghe del tempo e utilizzando il carrello così come i pittori zen utilizzavano il pennello. 


Titolo originale: 笛吹川regia e sceneggiatura: Kinoshita Keisuke; soggetto: dall’omonimo romanzo di Fukazawa Shichirō; fotografia: Kusuda Hiroyuki; montaggio: Sugihara Yoshi; scenografia: Itō Kesaki, Ezaki Kōhei; costumi:  Yamagichi Matsuo; musica: Kinoshita Chūji;  interpreti e personaggi: Tamura Takahiro (Sadahei), Takamine Hideko (Okei), Matsumoto Kōshirō (Sozo), Nakamura Kichiemon (Yasuzo)produzione: Shōchiku; durata: 117’; prima uscita in Giappone: 19 ottobre 1960.

 

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