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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

IMMORTAL LOVE (Eien no hito, KINOSHITA Keisuke, 1961)

SPECIALE KINOSHITA KEISUKE 

di Daniele Badella

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Con Immortal Love, Kinoshita Keisuke ci offre una delle gemme più cristalline della sua densa e complessa poetica umanista, prisma sfaccettato di impetuosi affetti compromessi e indissolubile reticolo di tormentate afflizioni e grazia illuminata. Dopo il rimpianto memoriale per l’amore mai sbocciato dei teneri giovani di She Was Like a Wild Chrysanthemum (1955), un’altra amara e matura elegia della perdita di una passione sfumata, negata e incompiuta, che pur strozzata sopravvive in lontananza al riparo di eventi e circostanze avverse, per estendersi protetta nella mutua reclusione interiore di una coppia divisa in un lungo e inevitabile percorso esistenziale di coraggio, fedeltà e resilienza. 

Giappone, 1932, un piccolo villaggio rurale della prefettura di Kumamoto. La giovane Sadako (splendente nella compostezza radiosa e combattiva di Takamine Hideko), bella e volitiva figlia di umili contadini, è innamorata, ricambiata, di Takashi, militare al fronte. Ma il ricco e subdolo possidente Heibei, tornato dalla guerra con tutti gli onori e una ferita alla gamba che lo rende parzialmente invalido, è così folgorato dalla donna da decidere di possederla brutalmente con la forza, fino a reclamarla in moglie contro la sua volontà. Sadako si dà alla fuga, ma anche per ragioni di opportunità economica e debolezza di classe il padre della ragazza è costretto a benedire l’unione con Heibei, a cui nemmeno Takashi, dopo l’iniziale rabbia, non crede di opporsi, sacrificando il suo amore per il bene dell’amata, a cui l’agiato matrimonio assicura un solido futuro. Passeranno i decenni ma non la forza insopprimibile dei sentimenti trattenuti da Sadako e Takeshi, sullo sfondo di un Paese impaludato in un’arcaica struttura sociale che viaggia progressivamente verso la modernità. 

Nell’osteggiata unione di Sadako e Takashi, Kinoshita va al cuore delle instabili fratture del melodramma fra i dogmi prepotenti della Storia ufficiale (familiare, sociale, politica) e la purezza indelebile e incorrotta della storia intima e sentimentale, dove è però quest’ultima, pur sconfitta, ad avere carattere maiuscolo, a reclamare e far valere il suo peso preminente nel corso decisivo delle cose del mondo. A mitigare il pessimismo cosmico e fatalista di rapporti di forza e soprusi – che conducono inesorabilmente alla mestizia e alla tragedia – con la forza discreta, appartata e solitaria di legami interrotti e sospesi – e perciò assoluti e imperituri -, che pur di non estinguersi resistono tenacemente alla prova del tempo, trasmettendosi come lascito ereditario a una generazione che saprà conquistare il diritto al desiderio e all’amore senza vincoli strappandoli all’autoritaria genealogia di vite rapite e soffocate dal potere altrui. 

In uno stile sobrio e calibratissimo fatto di eleganti quadri fissi e morbide panoramiche, tra armonie naturaliste e un intaglio della composizione in interni quasi di matrice rituale (si veda la scena del contratto matrimoniale stipulato tra i due patriarchi), con il prodigioso lavoro sul controluce e i chiaroscuri di Kusuda Hiroshi e le sapienti geometrie visive che tracciano profonde asimmetrie nelle figure setacciate nella profondità di campo, è come se pressoché ogni personaggio – Sadako in primis – venisse incasellato sul ripiano perverso di una scacchiera di ruoli e doveri che lo obbligano sistematicamente a fare un passo indietro (a cedere il passo, chinare il capo, ritrarsi nell’asservimento ubbidiente, accettare obtorto collo un destino ingrato), e più raramente a osare uno scatto – uno scacco vitale – in avanti, come infrazione alla legge dei padri e orgogliosa dichiarazione d’indipendenza.

In quello che sembra per tutti essere un implacabile gioco a perdere (prestigio, affetti, sicurezze, amor proprio e altrui, dignità), Kinoshita fissa le direttrici fondamentali del film in una precisa antinomia: da una parte l’immobilità, incarnata nella paralisi invalidante dello storpio padrone Heibei, simbolo di uno status familiare e di un privilegio sociale sempre più agonizzanti e moribondi, fiaccati dal progresso e dalle riforme agrarie che lentamente erodono un potere classista e politico al tramonto; dall’altra il movimento, come (ri)scatto di coscienza, slancio di inquietudine indomabile, forza di libertà e ricerca di fuga all’esterno verso l’autenticità del contatto. Un moto di spirito esemplificato nell’emozionante e lirica scena della tesissima doppia corsa a distanza, in montaggio parallelo, di Sadako e Takashi: come colti all’improvviso e nello stesso istante da un amaro presagio in forma di speculare affinità telepatica, i due, da punti diversi, si precipitano affannosamente alla ricerca del figlio pericolosamente scomparso di Sadako (presentendo entrambi il luogo in cui potrebbe trovarsi). In un intenso e disperato passo a due di estenuante bellezza, che li vede incontrarsi a metà di una stradina, fermi ai lati opposti di un campo lungo orizzontale, contemplati come in un rassegnato e paralizzato duello di destini mancati dal sapore western (Figura 1), con l’incalzante e inusuale flamenco di nacchere e corde pizzicate che si interrompe bruscamente proprio al momento dell’inaspettato vis-à-vis degli amanti ritrovati, un attimo prima che ogni tardiva illusione di speranza si spenga nell’eco luttuosa del tragico evento che non riescono ad evitare (il suicidio di Eiichi, che si libera dell’insopportabile marchio d’infamia originato nel suo essere figlio di un sopruso carnale). 

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Figura 1

La bellissima e tragica sequenza-climax alle pendici del vulcano Aso (Figura 2) – dal quale esala un fumo bianco etereo e cinerino, disteso in un millenario silenzio custode delle infauste sorti umane -,  è magistralmente ritratta da Kinoshita senza banali eccessi melodrammatici, con la straordinaria potenza evocativa del brullo e scosceso scenario naturale che, con lancinante secchezza di toni, richiama sia la metafisica paesaggistica di alienazione e sperdimento esistenziali di Antonioni, sia l’anelito alla fuga dal mondo ostile della Karin-Ingrid Bergman di StromboliTerra di Dio (1950) di Rossellini, in un panorama desertico che diffonde l’eco del disagio interiore del giovane Eiichi in un muto grido di dolore che assume proporzioni cosmiche e universali. 

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Figura 2

La struttura temporale ciclica, segnata in cinque capitoli cronologici dall’eterno ritorno di episodi che sembrano condannare i personaggi a confrontarsi nel tempo con gli stessi, immutabili fantasmi di desiderio, colpa, privazioni e possesso, proiettati tra genitori e figli, ripete anch’essa un’oscillazione tra l’immobilità mortuaria e la viva tensione al movimento audace verso un avvenire ottimistico. Heibei, despota impotente che vive da prematuro pensionato recluso, non fa che ricalcare pedestremente la posa supina e il destino segnato del padre infermo e malato bisognoso di costante accudimento (è Sadako a provvedere periodicamente a entrambi, subendone le frustrate angherie). Il suo stanco e statico tragitto esistenziale non è che una stolida e perniciosa coazione a ripetere una maniacale azione predatrice (possiede con la forza prima Sadako, poi, a distanza di anni, Tomoko, la moglie di Takashi), come distorto gesto infantile per imporre un’autorità sempre più ingracilita dalla vecchiaia. 

All’altro campo, invece, c’è l’unione volatile e perennemente rinviata tra Sadako e Takashi: non potendosi compiere nella caducità del presente che scorre inesorabilmente via, viene sublimata e trasferita sui binari del fiducioso viaggio verso il futuro (ricorrente l’immagine del treno, che compare fin dall’incipit). Traslata come un imprinting del destino sulle giovani figure di Naoko e Yutaka (i rispettivi figli di Sadako e Takashi), i giovani e liberi amanti che riescono a realizzare concretamente la fuga all’alba verso il sogno d’amore abortito dai genitori: lo stesso Takashi, nell’epilogo, riconosce il piccolo nipote Akira come il figlio che non ha mai avuto da Sadako. È così che l’amore è immortale: non per la sua durata protesa all’infinito, ma nel perenne ricominciamento offerto da un’occasione di perdono delle colpe e terminale rinascita alla vita. 


Titolo originale: 永遠の人 (Eien no hito); regia e sceneggiatura: Kinoshita Keisuke; fotografia: Kusuda Hiroshi ; scenografia: Chiyo’o Umeda; montaggio: Sugihara Yoshi; musica: Kinoshita Chūji; interpreti e personaggi: Takamine Hideko (Sadako), Sada Keiji (Takashi), Nakadai Tatsuya (Heibei), Otowa Nobuko (Tomoko, moglie di Takashi), Nonomura Kiyoshi (Rikizo, fratello di Takashi), Nagata Yasushi (Heizaemon, padre di Heibei), Katō Yoshi (Sojiro, padre di Sadako), Tamura Masakazu (Eiichi), Totsuka Masaya (Morito), Fuji Yukiko (Naoko), Ishihama Akira (Yutaka); produzione: Shochiku; prima uscita in Giappone: 16 settembre 1961 ; durata: 103’.

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