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Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

THE SNOWY HERON (Shirasagi, KINUGASA Teinosuke, 1958)

Retrospettiva Kinugasa – Il Cinema Ritrovato – Bologna 24 giugno – 2 luglio 2023

di Matteo Boscarol

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Anche durante gli anni cinquanta Kinugasa continua a sperimentare e lo fa in un modo un po’ più velato forse di quanto fatto agli inizi della sua carriera. The Snowy Heron è infatti a prima vista un lavoro “canonico”, un melodramma con protagonista Yamamoto Fujiko, attrice con cui collaborò durante la seconda metà degli anni Cinquanta in circa una quindicina di lavori, ma che è punteggiato e si eleva in alcuni momenti di alta costruzione formale. 

Oshino è una geisha che dopo aver incontrato Jun’ichi, un giovane pittore, se ne innamora perdutamente. Questo incontro le apre gli occhi e la donna cerca di cambiare vita e lasciarsi alle spalle il suo passato che ancora le impedisce di esprimere la propria individualità è che ritorna in varie forme, quella dei debiti che la donna deve ancora pagare, o quella di un ricco mercante più anziano di lei che la desidera ardentemente e la ricatta. 

Kinugasa adatta per il grande schermo un romanzo di Izumi Kyōka, autore già popolare nei primi decenni del novecento e le cui storie ritrovarono una rinata popolarità negli anni cinquanta, soprattutto grazie ad una serie di adattamenti cinematografici, fra cui il lungometraggio in questione. 

Il film è, ad una prima lettura, una denuncia della condizione della donna giapponese durante l’era Meiji, tramite la storia di una donna di basso rango ridotta quasi a una bambola ad uso e consumo degli uomini ed in balia dei desideri e della volontà di questi. In questo senso il film rispecchia un mondo costruito per gli uomini dove Oshino, la protagonista, si trova talmente alienata da percepire ogni suo bisogno personale come un’esigenza egoistica e non trova mai la forza di alzare la testa e rivendicare la sua dignità. 

Come spesso accade nei lungometraggi ambientati nel mondo femminile, specialmente quelli che affrontano la vita delle geisha durante i secoli scorsi in Giappone, vengono sottolineate e messe in immagini due tipi di relazioni fra le donne, amicizia ed empatia da una parte, e gelosia e competizione, dall’altra. Qui sembra prevalere il primo tipo di rapporto, con alcune delle colleghe, quelle più giovani specialmente, che cercano di aiutarla a vivere con l’artista, in particolare è molto convincente nella parte di una di queste, anche se passa sullo schermo per poco tempo, la talentuosa Sumi Rieko. 

La storia, come si evince da quanto scritto sopra, è interessante, ma non si discosta troppo dai canoni del genere, calcando decisamente la mano sull’aspetto melodrammatico delle vicende che colpiscono la protagonista ed il conseguente finale. Il risultato è quindi un film che trasmette, come molti altri lungometraggi del periodo, l’impotenza dell’individuo femminile intrappolato nella rete sociale che l’ha prodotto, ma ciò che eleva il film al di sopra di molti altri lavori dell’epoca sono le scelte stilistiche attuate in alcuni frangenti. L’oppressione a cui è sottoposta Oshino viene espressa e messa in scena da Kinugasa e dai suoi collaboratori, direttore della fotografia Watanabe Kimio e direttore artistico Shibata Tokuji, soprattutto attraverso il modo in cui vengono usati gli spazi architettonici delle case giapponesi, spazi simbolici che riflettono la condizione interiore della protagonista e della donna a servizio dell’uomo più in generale. Spesso la protagonista e le sue colleghe sono infatti inserite in inquadrature, se vogliamo anche troppo estetizzanti, che le mostrano come intrappolate in piccole celle di prigione, vale a dire intrappolate nel ruolo sociale che viene loro dato e da cui e quasi impossibile sfuggire.

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Un altro interessante elemento formale che si ripete durante tutto il lungometraggio è l’uso molto contenuto da parte di Kinugasa dei primi piani frontali. In questo modo i movimenti e le storie personali dei vari personaggi che animano il film appaiono allo spettatore come distaccati ed abbastanza lontani, quasi a seguire un copione dettato dal destino. Quando però Kinugasa decide di virare verso i primi piani, ci si ritrova davanti alla singolarità individuale del personaggio, con tutte le sue emozioni e le sue torture personali, sottolineando e mettendo in evidenza i momenti più significativi, sia dal punto di vista emotivo che per quel che riguarda la messa in moto della trama. Uno dei primi esempi di questa scelta, in questo caso gioioso, è quando i due protagonisti, Oshino e il pittore, sono seduti l’uno davanti all’altro in uno dei loro primi incontri e le loro mani si incontrano quasi per caso mentre i due stanno sfogliando un albun di fotografie. Dal lato opposto abbiamo la tragica scena, verso la fine del lungometraggio, in cui il vecchio mercante invaghito di Oshino si ritrova solo con lei in una stanza e lui, violento, la aggredisce per avere un rapporto sessuale con lei. 

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Titolo originale: 白鷺 (Shirasagi) regia: Kinugasa Teinosuke; soggetto: Izumi Kyōka; sceneggiatura: Kinugasa Teinosuke, Sagara Jun; fotografia: Watanabe Kimio; scenografie: Shibata Tokuji; musica: Saitō Ichirō; interpreti e personaggi: Yamamoto Fujiko (Oshino), Kawazaki Keizō (Jun’ichi), Irie Yosuke (Takashi), Sano Shūji  (Kumajiro Gosaka), Nozoe Hitomi (Date Nanae),Takamatsu Hideo (Tatsumi Yokichi), Kiyokawa Tamae  (Gosaka Hideko), Sumi Rieko  (Wakakichi); produttore: Nagata Masaichi per Daiei; durata: 97’; uscita: presentato in concorso al Festival di Cannes nel 1959.

 

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