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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

CROSSWAYS/CROSSROADS (Jūjiro, KINUGASA Teinosuke, 1928)

SPECIALE KINUGASA TEINOSUKE

di Valerio Costanzia

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Presentato in Europa (Berlino e Parigi) e negli Stati Uniti (New York) tra il 1929 e il 1930 in occasione di un viaggio compiuto dal regista stesso, Crossways è prodotto, come A Page of Madness, dalla Kinugasa Eiga Renmei, la casa di produzione indipendente fondata da Kinugasa. Conosciuto anche con i titoli Crossroads e Shadows of the Yoshiwara, il film ha, da un punto di vista storico e della ricezione del cinema giapponese in Occidente, una straordinaria importanza essendo stato per molti decenni l’unico film giapponese muto conosciuto in Europa e Stati Uniti.  

Periodo Edo (1603-1868). Un uomo, Rikiya, si aggira ferito di notte lungo una strada cittadina inghiottita dalle tenebre. L’uomo, in evidente stato di shock, trova rifugio in una casa dove vive la sorella Okiku. Rikiya è plagiato da una donna, O-ume, una “cortigiana” che frequenta un club di Yoshiwara, il quartiere del divertimento. Soggiogato dalla donna, Rikiya torna al club dove viene aggredito da un altro uomo che gli getta in volto della polvere bianca facendogli perdere la vista. Rikiya cerca di reagire e difendersi come può, arriva a sguainare la katana per colpire l’uomo finché lascia il club convinto di averlo ucciso. In realtà, l’uomo si era preso gioco di Rikiya fingendosi morto, sotto lo sguardo divertito degli altri avventori. Tornato a casa, la sorella cerca di aiutarlo: un medico le dice che per curare gli occhi di Rikiya servono molti soldi. L’unica speranza di Okiku per ottenere rapidamente il denaro è di prostituirsi al servizio di una vecchia megera. Intanto l’equivoco della finta uccisione dell’uomo attira l’attenzione di un subdolo malvivente il quale, fingendosi un poliziotto, si offre di aiutarla a scagionare il fratello in cambio di favori sessuali. La situazione sembra precipitare: il finto poliziotto tenta di abusare di Okiku ma la donna lo uccide con un coltello. Nello stesso momento Rikiya riacquista la vista e, dopo essersi assicurato che la sorella stia bene, torna al club dove trova O-ume e l’uomo che credeva di aver ucciso. Resosi conto di essere stato preso in giro, in preda a un raptus Rikiya stramazza al suolo privo di vita.       

Insieme A Page of Madness del 1926, Crossways è l’altro grande capolavoro di Kinugasa degli anni Venti, un decennio estremamente prolifico per il maestro giapponese che aveva iniziato la carriera nel cinema in qualità di onnagata ovvero gli attori di sesso maschile che interpretavano personaggi femminili (ricordiamo che, per tradizione, nel teatro kabuki alle donne non era consentito recitare, divieto esteso anche al cinema almeno fino all’inizio degli anni Venti). Entrambi i film sembrano essere due facce della stessa medaglia (lo storico William Gardner, che ha dedicato un approfondito saggio al film, parla addirittura di sequel virtuale), cioè della Kinugasa Eiga Renmei: da un lato A Page of Madness, un’opera che all’uscita non ebbe successo (oltre a rappresentare un fallimento finanziario), estremamente articolata e stupefacente per quanto riguarda lo sperimentalismo visivo, con soluzioni formali complesse, piegate dall’autore per dare concretezza visiva alla follia e al parossismo dai personaggi; dall’altro, Crossways, film invece di successo in patria e all’estero in cui Kinugasa ritorna a un linguaggio più consono alla drammaturgia di un melodramma a tinte forti qual è il film, pur mantenendo scelte visive e formali che lo apparentano al cinema impressionista europeo degli anni Venti. 

Se da un punto di vista formale, quindi, ci troviamo nel solco di una narrazione meno dirompente, anche il tema trattato è decisamente più “mainstream” rispetto all’universo concentrazionario del manicomio di A Page of Madness: in Crossway è l’abitazione dei due fratelli a essere teatro di una sorta di Kammerspiel espressionista, come rileva Dario Tomasi, e come possiamo vedere sin dalla prima sequenza in esterni in cui Rikiya si aggira furtivamente per la via cittadina occlusa lateralmente dai palazzi. Kinugasa, in poche inquadrature, detta il tone of voice del film:

– un establishing shot fortemente contrastato a livello luministico che ci introduce nell’ambiente, con l’entrata in scena di Rikiya;

– uno stacco su Rikiya visibilmente ottenebrato mentre entra rapidamente in campo da sinistra; 

– 3 rapidi stacchi su particolari del corpo di Rikiya come mani e piedi che mostrano evidenti ferite da taglio;    

– un altro stacco su Rikiya in primo piano, seguito da una sua soggettiva della strada e poi un ulteriore stacco (oggettiva) su Rikiya;

– un establishing shot, parallelo al primo, che chiude la sequenza.

In circa mezzo minuto (35 secondi) Kinugasa realizza uno straordinario incipit da manuale, con una sua architettura interna magistrale composta da 9 quadri, il primo e l’ultimo simmetrici, giocando su campo e fuori campo, illuminando la scena in modo impeccabile, alternando campi lunghi e primi piani, oggettive e soggettive, dettagli di oggetti e particolari umani: quest’ultimi (i particolari del corpo) rappresentano il climax della sequenza che raggiunge il picco emotivo proprio nel momento in cui Kinugasa mostra le mani e i piedi feriti, picco che, non a caso, si colloca esattamente a metà della sequenza.

Se questa sequenza si articola sul découpage tipico del cinema classico, successivamente, quando Rikiya si appresta a entrare in uno degli appartamenti dove vive la sorella Okiku (come ci informano le didascalie) Kinugasa imprime alla narrazione una sterzata quasi – se ci è consentita la divagazione – da J-Horror ante litteram: una lenta e inquietante carrellata laterale, da destra verso sinistra, segue Okiku mentre si accerta che non ci sia nessuno dalla scala esterna. La macchina da presa scivola lentamente attraversando letteralmente il muro (come se fossimo in un moderno film degli anni Sessanta, in cui l’istanza narrante mostra la propria presenza attraverso la macchina da presa), poi la carrellata cambia direzione ritornando indietro, questa volta da sinistra a destra, seguendo sempre Okiku che, terrorizzata per qualcosa che ha visto sulle scale, indietreggia sino a ricongiungersi con il fratello.

Questa magnifica doppia carrellata, carica di tensione e di minaccia, giocata tutta sull’effetto sorpresa – in quanto anche noi spettatori siamo ignari di ciò che gli occhi di Okiku hanno visto – è il preludio a una successiva sequenza di eccezionale arditezza formale, un’inquadratura zenitale (o plongée) sulle scale ma, si badi, non a camera fissa bensì in movimento, che segue, inquadrandolo dall’alto (figura 1), un uomo che sta salendo le scale. Kinugasa prolunga l’attesa minacciosa, mostrandoci con una serie di stacchi i volti terrorizzati di Rikiya e Okiku. Segue poi una lenta panoramica che, dal volto di Okiku percorre quasi tutta la stanza per arrivare a fermarsi sul volto dell’uomo delle scale che si rivela essere il proprietario della casa sciogliendo così la tensione creatasi inizialmente. Questa soluzione formale trova nel film una sua replica identica più avanti (al  minuto 51) con protagonista però il finto poliziotto (figura 2).

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 Figura 1

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Figura 2

Va sottolineato che, se da un punto di vista della costruzione formale le due sequenze sono sovrapponibili, ben diverse sono le dinamiche spettatoriali. Nella prima sequenza, siamo emotivamente coinvolti dalla minaccia innescata con la doppia carrellata: per dirla con Francesco Casetti (Dentro lo sguardo), nella prima sequenza abbiamo un deficit cognitivo (chi sta salendo le scale?) compensato da un forte coinvolgimento emotivo (abbiamo visto il volto terrorizzato di Okiku che a sua volta ha veduto qualcuno sulle scale) il tutto guidato da una oggettiva irreale quale è la plongée; nella seconda, invece, noi spettatori sappiamo che qualcuno sta salendo le scale a differenza di Rikiya e Okiku che si stanno consolando a vicenda, in una delle sequenze più tenere e affettuose di tutto il film (figura 3). Quindi, se la prima sequenza gioca sull’effetto sorpresa la seconda appartiene invece allo statuto della suspense.

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Figura 3

Queste sequenze appartengono a un registro da Kammerspielfilm, mentre sono decisamente più dinamiche e movimentate quelle che hanno come scenario il club di Yoshiwara dove vive O-ume (figura 4), il luogo di perdizione per eccellenza, laddove la casa di Okiku rappresenta, seppur con le minacce che abbiamo visto, un’oasi in cui trovare rifugio. Yoshiwara ci riporta direttamente a un altro capolavoro degli anni Venti, Metropolis di Fritz Lang in cui il nightclub teatro delle sinuose performance della Maria-robot ha il medesimo nome del noto quartiere giapponese (nel suo saggio, Gardner avanza delle riserve sul fatto che O-ume appartenga a un locale di Yoshiwara: è più probabile che l’ambientazione del film sia da ricercare nella zona malfamata di Asakusa). Per completezza storica ricordiamo che la prima berlinese di Crossways, con il titolo Im Schatten des Yoshiwara (All’ombra dello Yoshiwara) avviene nel maggio del 1929 (il film circolò poi in numerosi paesi europei e, perduto in Giappone, è sopravvissuto in Europa in almeno in due copie, come segnala la storica Marianne Lewinsky che ha redatto le schede dei film in occasione della rassegna, organizzata dalla Cineteca del Friuli, La luce dell’Oriente: cinema giapponese muto, 1898-1935)

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Figura 4

Gli elementi formali che maggiormente ricordano il cinema impressionista di marca europea (Dulac, Epstein, Gance, L’Herbier), sono presenti soprattutto nella sequenza innescata dalla “visione” della girandola (figura 5) che ruota vorticosamente riempiendo lo schermo: gli oggetti sferici che rotolano come delle palline, le decorazioni del club, le continue transizioni da un’inquadratura all’altra mediante dissolvenze incrociate, la frenesia da luna park che pervade il locale, la mobilità fluttuante della macchina da presa che sembra dondolare quando compare O-ume… 

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Figura 5

Una photogènie composita che alterna fascinazione, perdizione e un certo (dis)gusto per le sgradevoli espressioni di alcuni personaggi, spesso mostrati in primissimo piano con il particolare della bocca sdentata come il personaggio del finto poliziotto (figura 6) oppure la vecchia megera (figura 7).

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Figura 6

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Figura 7

Particolari, questi, che fanno parte di un vasto campionario umano che Kinugasa mostra accentuandone le caratteristiche morfologiche: lo “psicologismo” caro al cinema europeo impressionista e al Kammerspielfilm si concretizza nei volti ma anche, per esempio, nella cecità di Rikiya che è reale e, ovviamente, simbolica, il segno della sua incapacità di guardare le insidie di cui è soggetto, a differenza della sorella che vive segregata in casa e tuttavia sembra essere depositaria di uno sguardo “oltre”, concreto, capace di vedere il pericolo: non è un caso che, nella doppia carrellata iniziale di cui abbiamo parlato, sia Okiku ad andare a vedere chi sta salendo le scale. Inoltre, lo sguardo di Rikiya, anche prima della cecità, è spesso uno sguardo allucinato, mediato da visioni distorte e inquietanti, uno sguardo che appartiene allo statuto della finzione artificiosa e illusoria dei “trucchi” della macchina cinema: ecco perché la sequenza della girandola viene innescata da Rikiya che sembra compiere un sogno a “occhi completamente chiusi”.


Titolo originale: 十字路 (Jūjiro); regia e sceneggiatura: Kinugasa Teinosuke; fotografia: Sugiyama Kōhei; scenografia: Tomonari Yozo; interpreti: Bandō Junosuke (Rikiya), Chihaya Akiko (Okiku, la sorella maggiore di Rikiya), Ogawa Yukiko (O-ume, la donna del tiro con l’arco), Sōma Ippei (uomo con il manganello), Nakagawa Yoshie (la vecchia mezzana), Seki Misao (padrone di casa), Nijo Teruko (donna scambiata), Ozawa Myoichiro (uomo litigioso); produzione: Kinugasa Eiga Renmei, Shochiku; durata: 87’ a 18 f/s, lunghezza 1786 m; uscita in Giappone: 11 maggio 1928; uscita a Berlino, Parigi, New York e alla Film Society di Londra: (1929-1930)

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