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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

KEN (id., MISUMI Kenji, 1962)

Il Cinema Ritrovato. Bologna 25 giugno – 3 luglio 2022
 
Retrospettiva “Misumi Kenji: un regista istintivo”
 

 

Secondo capitolo della cosiddetta “trilogia della spada” (apertasi con Kiru e chiusasi con Ken-ki), interpretato da quell’icona del jidaigeki degli anni Sessanta che è Ichikawa Raizō (l’attore più presente nella filmografia del regista), tratto dall’omonimo racconto di Mishima Yukio, e fotografato in un elegante bianco e nero da  Makiura Chishi (a fianco di Misumi in altri film come Ken-ki e alcuni episodi delle serie Zatoichi e Nemuri Kyōshirō), Ken (“La spada”) è, come è stato notato, un jidaigeki travestito da gendaigeki, ovvero un film di samurai dalle fattezze contemporanee. Seguendo con notevole fedeltà il racconto di Mishima (che potete leggere nell’edizione italiana di SE, fatelo!), il film narra di un giovane istruttore di Kendo, Jiro, che si dedica anima e corpo all’arte della spada e a preparare i suoi allievi all’imminente campionato nazionale universitario. Stoico, determinato, inflessibile e incapace di compromessi, ma anche enigmatico, Jiro è l’incarnazione dello spirito del samurai e del suo testo sacro (l’Hagakure, opportunamente citato nel film) e, proprio per questo, uno dei personaggi che meglio hanno dato corpo alla poetica di Mishima: dal suo essere alienato dai valori della contemporaneità sino alla finale morte volontaria. 
 
Il sistema dei personaggi che governa il racconto, affianca a Jiro due altre figure: quelle di Mibu e di Kagawa, in evidente contrapposizione fra loro. Mibu è un giovane cadetto, che venera il suo maestro e di questi è una sorta di doppio in chiave minore (come quando preferisce il silenzio alla verità); Kagawa, il vice di Jiro, rappresenta la normalità, l’ordinario, è incapace di comprendere l’eccezionalità del protagonista, verso cui finisce col maturare un sentimento d’odio. Sarà proprio Kagawa a spingere gli allievi del dōjō ad andare, durante il faticoso allenamento finale, a tuffarsi in mare, trasgredendo gli ordini di Jiro, e finendo così col provocare in questi quel senso di scacco e impotenza che lo porterà alle estreme conseguenze. 
 
Il racconto di Mishima è una narrazione al maschile, venata da passaggi di desiderio omosessuale (“Dagli spacchi laterali dei larghi pantaloni pieghettati [di Jirō] s’intravedeva il turgore giovanile delle cosce ambrate, scattanti e nervose da far correre il pensiero al resto del corpo, alle fresche carni guizzanti sotto il corpetto e la casacca imbottita”). Pur seguendone la struttura narrativa molto da vicino, Misumi e il suo sceneggiatore Funahashi Kazuo, vi introducono un nuovo personaggio femminile, quello di Eri. Se, da una parte, l’introduzione di una donna sembra un cedimento alle esigenze commerciali di un’industria, quella cinematografica, che non sa rinunciare alla logica del sotto-intreccio sentimentale (o perlomeno alla sua possibilità), dall’altra, serve meglio a precisare l’alienazione del protagonista, oltre a definire con precisione il rapporto del film con la coeva produzione giapponese. Siamo nella prima metà degli anni Sessanta, e il cinema giapponese è travolto dai seishun-eiga (i film “su” e “con” i giovani) e, in particolare, dal filone dei tayōzoku-eiga (i film della “banda del sole”, non è forse un caso che Ken inizi con Jiro ancora bambino che, riprendendo una scena del racconto di Mishima, fissa il sole per assorbirne la forza e l’energia). I tayōzogu-eiga erano il ritratto di una generazione che si ribellava ai valori dei suoi padri, ne rigettava gli ideali, e cercava nella violenza una risposta al vuoto di principi che la circondava. Nasceva così il “cinema delle tre “S.”: “Sex, Speed and Thriller” (che in giapponese si pronuncia “Surira”). Niente di più lontano dalla poetica di Mishima e dal suo recupero dei valori più autentici della tradizione. 
 
Misumi e Funahashi introducono nel loro film numerosi riferimenti al tayōzoku, come testimoniano le scene in cui alcuni giovinastri si introducono nel campus universitario per cacciare di frodo un piccione viaggiatore o quando, seduti vicino al bagno di un locale, si divertono a deridere e mettere in imbarazzo le ragazze che ne escono (”Ne hai fatta tanta?”). Per non dire delle affermazioni di Mibu, quando sostiene di non sopportare i suoi coetanei che “credono di affermarsi con la disobbedienza”, o dell’anziano robivecchi che, proprio nella scena del piccione, afferma di avere paura dei “giovani di oggi”. All’universo del tayōzoku appartiene anche il personaggio di Eri, come testimoniano, fra le altre, le immagini di lei, con gli occhiali da sole e il foulard, alla guida della sua decappottabile sportiva. Disinibita e determinata (una determinazione che a suo modo non è lontana da quella del protagonista), Eri – spinta da Kagawa, che vuole rendere Jiro più umano e meno “Dio” – corteggia esplicitamente il protagonista e, grazie a uno stratagemma, riesce a farsi trovare sola con lui in un appartamento. Qui la donna cerca di sedurre esplicitamente l’uomo (“Resta un po’ con me”, “Baciami se vuoi”), danza provocatoriamente davanti al suo sguardo e – in un’inquadratura da antologia – spinge sotto il letto, coi piedi velati dalle calze di nylon, le sue scarpe, per impedirgli di andarsene. La sequenza è costruita sulla resistenza di Jiro, sul suo non cedere alla tentazione, sull’affermazione del proprio stoicismo, contribuendo in modo determinante a definire la natura del personaggio. Interessante notare come la scena – la cui tensione visiva è affidata anche alle pale di un ventilatore in azione – si chiuda prima del suo vero e proprio epilogo, lasciando lo spettatore in dubbio sui suoi ultimi sviluppi (in un altro superbo passaggio, l’ultima sua inquadratura è quella della copertina di un LP in cui si vede l’immagine di una donna nuda di spalle su cui è appoggiata una spada del Kendo). 
 
Jiro si afferma così come un eroe stoico, che fa della purezza e della semplicità, un ideale di vita – quello celebrato da Mishima – con un’intransigenza del tutto priva di sfumature. Il film, come ogni film dovrebbe fare, non lo giudica, non lo assolve, né lo condanna… lasciando allo spettatore il compito di trarre le proprie conclusioni. 
 
Dario Tomasi
 
 
Titolo originale: 剣(Ken); regia: Misumi Kenji; soggetto: dal racconto omonimo di Mishima Yukio; sceneggiatura: Funahashi Kazuo; fotografia: Makiura Chishi; scenografia: Naitō Akira; montaggio: Suganuma Kanji; musica: Ikeno Sei; interpreti: Kokubun Jiro (Ichikawa Raizō), Kawazu Yūsuke (Kagawa), Hasegawa Akio (Mibu), Kobayashi Eiju (Eri); produzione:  Fuji Hiroaki per la Daiei; durata: 94’; prima uscita in Giappone: 14 marzo 1964.
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