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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

THE MAN FROM THE SEA (Umi Wo Kakeru, FUKADA Kōji, 2018)

di Marcella Leonardi

SPECIALE FUKADA KŌJI

manfromthesea

Un uomo misterioso viene trovato privo di sensi su una spiaggia di Banda Aceh, in Indonesia. Atsuko è una donna giapponese che vive e lavora come operatrice di soccorso nella provincia di Aceh, dove nel 2004 lo Tsunami uccise più di 150.000 persone. Insieme a suo figlio Takashi e sua cugina Sachiko decide di prendersi cura di quest’uomo senza memoria e dai poteri magici, chiamato Laut, parola indonesiana per “oceano”.
Con The Man from the Sea ancora una volta il regista si dimostra particolarmente sensibile alle suggestioni del paesaggio naturale, alla sua forza animistica, alla presenza dei fantasmi di storia che porta con sé. Lo tsunami, che nel film è trattato come un’esperienza comune che unisce Indonesia e Giappone, diventa l’elemento che innesca la circolarità del racconto: il punto d’inizio e fine, una forza imperscrutabile che trascina con sé superfici, memoria, per restituire una tabula rasa in cui tutto è possibile. Le immagini sono estremamente simboliche, ma anche enigmatiche: prevale però la scelta di un’assenza di dolore, una sospensione del lutto a favore di una equivoca, arcana gioia che si mescola all’azzurro del mare. Formalmente curatissimo, il film dispone ogni oggetto e dettaglio secondo un ordine significante: sin dalle prime scene notiamo la predilezione di una palette cromatica incentrata sul marrone e sul blu, in una comunione di corpo e spirito, terra e mare/cielo. Laut, l’uomo misterioso che emerge dal mare dimentico del suo passato e con una astratta fissità espressiva che non ne turba i lineamenti, è manifestazione dell’innocenza della natura. Col suo volto “buono” e una presenza inizialmente scambiata per cristologica e salvifica, Laut esprime la complessità di un mondo naturale che opera al di là del bene e del male, estraneo a qualsiasi crudeltà. Si tratta di una metafora “pesante”, ma che all’interno delle coordinate del cinema di Fukada acquista leggerezza e transitorietà soprattutto grazie alla passione del regista per i valori puramente percettivi, gli aspetti sensuali e sensoriali dell’immagine: l’emozione come macchia di colore o forma, il movimento creato dalla luce.

Regista continuamente attratto dall’insolito, Fukada ibrida il suo cinema di ascendenza classicista con un tensione alla distrazione e alla curiosità che non lo rende dissimile dal suo protagonista Laut, affascinato dalla bellezza di una farfalla. In The Man from the Sea è presente, come già in passato, una forte vena francese: ma se opere come Au revoir l’eté o Sayonara sceglievano un dialogo rohmeriano, capace di cogliere la vita nel suo farsi, qui il modello diviene il cinema-poesia di Jean Cocteau con la sua incantata aderenza al linguaggio surrealista. Fukada percorre il sentiero della poesia per evocare lo tsunami senza materializzarne la sofferenza: Laut, nel suo istinto naturale, ridona la vita a un fiore (come faceva Cocteau in reverse-motion ne Il testamento d’orfeo, figura 1 e 2) o interrompe il flusso dello spazio-tempo per consentire agli altri protagonisti di percorrerlo avanti e indietro. Slow-motion, montaggio poetico, annullamento delle logiche razionali: Laut, l’uomo-Tsunami, mescola morte e vita, ultimo respiro e rinascita, nelle infinite trasformazioni della natura.

fiore

Fukada sgretola i rigidi confini di un “nazionalismo” non solo artisticamente, ma come attitudine verso la vita stessa. Il regista ama la presenza dell‘altro, portatore di una estraneità culturale, filosofica e fisica. Questo mescolarsi di culture, corpi, visioni del mondo è un’esplosione di ricchezza (pensiamo alla vitalità di un film come Hospitalité). Tutto ciò che avviene nel cinema di Fukada è sempre il risultato di incroci (in The Real Thing è letteralmente un incrocio stradale), incontri casuali o ritorni; in The Man from the Sea sono proprio le conseguenze dei rapporti umani, in particolare nel finale sospeso e molto ambiguo, a suscitare un rinnovato senso di futuro.

The Man from the Sea è un esperimento molteplice, in cui Fukada affronta anche il discorso dell’intrusività del mezzo video: parte del film viene osservata dalla videocamera di un personaggio che aspira a diventare giornalista, ma si aprono interrogativi sulla banalizzazione dell’immagine filmata e sulla sua potenziale creazione di falso.
Forse The Man from the Sea vive di troppe pulsioni che tendono a confondere lo spettatore, lasciandolo con un carico di emozioni irrisolte. Ma Fukada, l’uomo che fa recitare poesie ai robot (Sayonara), che crede alla forza salvifica e distruttrice dell’amore (The Real Thing, A Girl Missing) e che è tanto folle da scrivere un film a partire da una canzone ascoltata quindici anni prima (Love Life), è un artista irrequieto e vitale che fa del cinema una forza rivoluzionaria, talvolta scomoda o parzialmente fallimentare, cui è impossibile restare indifferenti.

 


Titolo originale: 海を駆ける (Umi Wo Kakeru); regia: Fukada Kōji; sceneggiatura: Fukada Kōji; fotografia: Ashizawa Akiko; montaggio: Fukada Kōji, Julia Gregory; musica: Onogawa Hiroyuki; interpreti: Fujioka Dean (Laut), Tsuruta Mayu (Atsuko), Nakano Taiga (Takashi); Abe Junko (Sachiko); produzione: Nikkatsu; prima uscita giapponese: 26 maggio 2018; durata: 107’.

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