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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

WILD BERRIES (Hebi ichigo, NISHIKAWA Miwa, 2003)

di Giacomo Calorio

SPECIALE NISHIKAWA MIWA

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Opera prima con la quale Nishikawa Miwa, già assistente alla regia di Koreeda (che produce il film), entra a far parte della nutrita schiera delle promettenti cineaste giapponesi salite alla ribalta nel nuovo millennio (tra le quali ricordiamo Tanada Yuki, Ogigami Naoko e Ninagawa Mika).

Tomoko (Tsumiki Miho), un’onesta e seria maestra elementare, invita a cena il collega e fidanzato Kamata (Tezuka Tooru) per presentarlo alla famiglia.  All’apparenza, la cena fila liscia a dispetto della demenza senile del nonno (Shōfukutei Matsunosuke), così che l’abbiente e raffinato Kamata torna a casa soddisfatto del cordiale incontro con la “tipica famiglia media” della sua fidanzata. In realtà, la cordialità dimostrata dai familiari di lei nei suoi confronti era puramente di facciata, e l’affettuosa stima del ragazzo per l’operosità del futuro suocero non è affatto corrisposta dal padre di Tomoko. Tra l’altro, non è l’unica manifestazione di ipocrisia da parte di quest’ultimo, dal momento che egli nasconde abilmente alla famiglia di avere da tempo perso il lavoro e di aver contratto un’ingente mole di debiti. La verità emerge durante il funerale del nonno, nel corso del quale gli strozzini si presentano a esigere il dovuto. La situazione viene temporaneamente risolta dallo scaltro fratello minore di Tomoko, Shūji (Miyasako Hiroyuki), in passato cacciato dalla famiglia perché ritenuto indegno, e ora capitato casualmente sul posto in quanto, di “professione”, ruba le offerte ai funerali. La famiglia, sull’orlo della crisi, decide di affidarsi al “figliol prodigo” tornato provvidenzialmente all’ovile, ma l’integerrima Tomoko, che ha scoperto come il fratello si procura da vivere e nel frattempo è stata vilmente abbandonata da Kamata (rimasto inorridito di fronte alle menzogne sulle quali era costruita l’apparente armonia della famiglia della ragazza), sospetta che, come suo solito, Shūji nutra dei loschi secondi fini.

Wild Berries si inserisce in quel filone del cinema giapponese contemporaneo che si propone di mettere a nudo la crisi che, dietro il velo e le piccole ipocrisie del tatemae (l’immagine di facciata), mina l’apparente solidità dell’istituzione familiare medio-borghese, a sua volta specchio e conseguenza di una più ampia depressione economica e sociale. Se infatti le crepe nell’esistenza esteriormente armoniosa della famiglia della protagonista si insinuano a partire dalla perdita di dignità e autorevolezza della figura paterna (l’anello debole della catena, a dispetto dell’immagine che il capofamiglia si sforza di dare di sé), questa coincide innanzitutto con il declassamento, sia a livello di prestigio che di ruolo economico, della figura del salaryman all’interno della società giapponese. Il personaggio del padre, un ingegnere che nasconde alla famiglia di aver perso il lavoro recitando quotidianamente un’accurata messinscena per mostrarsi indaffarato, anticipa quello di Tokyo Sonata (2008) di Kurosawa Kiyoshi, mentre l’impietosa raffigurazione delle ipocrisie, delle crudeltà e dello squallore che si celano in seno alla famiglia tipo giapponese trova un più ampio spettro di esempi nel cinema giapponese contemporaneo, tra i quali ricordiamo almeno The Family Game (1983) di Morita Yoshimitsu, Crazy Family (1984) di Ishii Sogo, Visitor Q (2001) di Miike Takashi, Noriko’s Dinner Table (2005) di Sono Sion, Funuke, Show Some Love, You Losers! (2007) di Yoshida Daihachi e, infine, Miss Zombie (2013) di Sabu. Tuttavia, se nella maggior parte di questi film era un elemento estraneo incarnato da un personaggio, a scatenare la crisi, qui il processo è tutto interno al microcosmo familiare, di cui fa parte anche il figlio espulso. Tale processo è autoindotto e produce l’effetto di una vera e propria reazione a catena: la madre esasperata finge di non accorgersi che il suocero sta soffocando e manca così di soccorrerlo; al funerale di questi vengono pubblicamente svelati i debiti del marito; i debiti fungono da pretesto al debosciato figlio minore per reintrodursi nella famiglia che lo aveva cacciato e prendersi la sua rivincita; il matrimonio dell’integerrima figlia fallisce con l’emergere delle menzogne che la circondano.

Nel suo trattare una vicenda di attuale drammaticità con i toni della black comedy, nonché nel suo alternare momenti più posati ad altri più sfrontatamente vivaci (anche grazie a una colonna sonora particolarmente efficace), Wild Berries mostra una predilezione, da parte di Nishikawa, per registri poliedrici e spesso spiazzanti nella loro ambivalenza, come successivamente vedremo anche in Sway (in cui il tono intensamente drammatico della seconda parte tradisce ampiamente le aspettative suscitate dall’incipit “cool”). In entrambi i film, tale ambiguità rispecchia la raffigurazione dei personaggi primari, di cui la regista ci fornisce un’immagine poco chiara e mai univoca, astenendosi dal fornire chiavi di interpretazione e giudizi morali. È soprattutto il caso dello sfuggente fratello Shūji, tanto odiato quanto amato dai suoi familiari in quanto dotato di un’innegabile simpatia che manca alla stessa Tomoko. In particolar modo, pur essendo egli l’autore di atti ignobili (rubare le offerte ai funerali e vendere le mutandine della sorella negli anni dell’adolescenza), scopriamo che alla base della totale perdita di fiducia di Tomoko nei suoi confronti c’è un unico episodio del passato (che riguarda appunto le fragole del titolo) malamente interpretato dalla stessa. La realizzazione di questo errore, sul finale del film, scuote non solo le certezze della donna, ma anche dello spettatore circa le vere intenzioni di Shūji riguardo alla sua famiglia. 

 


Titolo originale: 蛇イチゴ (Hebi ichigo); regia, soggetto e sceneggiatura: Nishikawa Miwa; fotografia: Yamamoto Hideo; suono: Tsurumaki Hitoshi; montaggio: Miyajima Ryūji; interpreti e personaggi: Tsumiki Miho (Tomoko), Miyasako Hiroyuki (Shūji), Hiraizumi Sei (Yoshiro), Ōtani Naoko (Akiko), Tezuka Tooru (Kamata), Shōfukutei Matsunosuke (il nonno); produzione: Koreeda Hirokazu per Bandai Visual Company, Engine Film, Imagica; durata: 108’; prima proiezione in Giappone: 6 settembre 2003.

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