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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

THE SOUND OF WAVES (Nami no Oto, HAMAGUCHI Ryūsuke, SAKAI Ko, 2012)

Speciale Hamaguchi Ryūsuke

di Valerio Costanzia

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The Sound of Waves è il primo titolo di una trilogia che Hamaguchi, con il regista Sakai Ko, dedica al terremoto del 2011. Come è noto, l’11 marzo 2011 la regione del Tōhoku, situata nel Giappone settentrionale, nell’isola di Honshu, subisce i devastanti effetti di uno tsunami causato da un sisma il cui epicentro è individuato al largo della costa. Si tratta del più potente terremoto mai registrato in Giappone che ha causato, oltre al disastro della centrale nucleare di Fukushima, oltre 15.000 vittime. Hamaguchi è stato il primo ad andare nel Tōhoku su commissione delle Mediateca di Sendai che aveva messo in piedi un progetto per documentare il disastro. Una call to action, avviata dalla sua scuola, la Tokyo University of the Arts, che ha convinto Hamaguchi a prendere parte a questo progetto assieme al suo compagno di università Sakai Ko che firma con lui il documentario.

Spostandosi in auto lungo la costa di Sanriku, Hamaguchi e Sakai compiono un viaggio scandito dalle tappe in cui si fermano per raccogliere le interviste a una serie di testimoni/sopravvissuti dello tsunami. I luoghi toccati sono Taro (Miyako), Kesennuma, Minamisanrikucho, Ishinomaki, Higashi-Matsushima, Shinchimachi. I protagonisti delle interviste – una coppia di anziane sorelle, tre volontari del vigili del fuoco, una donna che lavora in un ospedale, un contabile, una coppia di sommozzatori e due giovani impiegate – sono persone comuni, ognuna delle quali si racconta e racconta i propri ricordi, ancora dolorosi e recenti, dello tsunami.

La fascia costiera di Sanriku è nota per aver subito nel corso della storia numerosi eventi sismici dovuti al fatto che la sua conformazione irregolare e la presenza di numerose baie svolgono un effetto amplificatore nei confronti dello tsunami aumentando la sua distruttività. Una costa “predestinata” potremmo dire, come sembra avvalorare la prima intervista alle due anziane sorelle che hanno avuto modo di assistere al precedente tsunami del marzo del 1933. Il racconto di questo precedente disastro viene messo in scena con una serie di tableaux, mostrati dalla sorella più anziana, che narrano la storia di un bambino, Yocchan, il quale a sua volta ascolta il racconto del nonno, anch’egli sopravvissuto al precedente grande tsunami del 1896. Dal racconto emerge – come dicevamo sopra – una sorta di predestinazione fatalistica nei confronti di questo evento naturale così distruttivo e implacabile a cui le persone non possono sfuggire. Anche il suono delle onde a cui allude il titolo nasconde un suo substrato mitico: dal racconto, infatti, l’arrivo dello tsunami pare sia preannunciato da un suono sinistro e inquietante: “NOHN! NOHN!”. Questa suggestione mitica, che rimanda ai racconti orali tramandati di generazione in generazione, verrà ripresa anche nel terzo capitolo della trilogia dedicata allo tsunami, Storytellers, che vede tra i protagonisti Kazuko Ono, una studiosa di folklore regionale impegnata nel raccogliere e documentare i racconti favolistici narrati da anziani abitanti dei luoghi interessanti dal disastro (particolare non trascurabile: in questa terza parte della trilogia non si accenna minimamente allo tsunami). Ma chi sono i protagonisti di The Sound of Waves? Oltre alle due sorelle, che aprono il documentario, Hamaguchi e Sakai intervistano tre vigili del fuoco, una donna, un consigliere comunale, una coppia di ingegneri marittimi e due giovani sorelle che lavorano come impiegate in una azienda. Persone comuni che hanno in comune, pur nel differente approccio al ricordo personale, una costante: non abbandonare i luoghi che sono stati oggetto dello tsunami. Questa convinzione, che emerge alla fine di ogni intervista, sembra in contraddizione con l’assunto mitico che dovrebbe invece spingere gli abitanti ad abbandonare un luogo in cui la natura “matrigna” mostra il suo volto più crudele e distruttivo. Sono due le parole che ritornano più volte: radici e comunità, a testimonianza di questo forte legame, potremmo dire, “tellurico”. Dicevamo del differente approccio al ricordo: se l’anziana sorella commuove e incuriosisce nell’utilizzare l’escamotage della fabula, la donna della terza intervista mostra in tutta la sua drammaticità i segni dell’evento. Il suo è un ricordo estremamente sofferto, rimarcato da Hamaguchi attraverso il suo controcampo che lo mostra in totale empatia e partecipazione emotiva al dolore della donna. Decisamente più “leggere” sono le testimonianze degli altri, in particolare la coppia di ingegneri i quali – pur nella drammaticità dell’evento – sembrano volerlo esorcizzare attraverso un disincanto rafforzato da una naturale complicità – oseremmo dire quasi ludica – nel dialogare tra loro. E qui Hamaguchi ci mette molto del suo: innanzitutto non compare mai in primo piano se non in un campo lungo all’inizio dell’intervista dietro una vetrata, distante, a differenza della terza intervista dove invece è ben presente. In secondo luogo delega la presentazione direttamente alla coppia: il marito, Jun Abe si presenta alla moglie elencando le proprie generalità come se fosse uno sconosciuto, seguito dalla moglie che esordisce dicendo “Sono sua moglie, Shimako Abe” anche lei, quindi, come se si trovasse davanti a uno sconosciuto. Una situazione “artificiosa” che crea ilarità e sorrisi tra i due, ribadita da Jun Abe che all’inizio chiede alla moglie (ma probabilmente rivolto ad Hamaguchi fuori campo) se debbano stare faccia a faccia. 

Per quanto concerne l’articolazione delle inquadrature e la messa in scena delle singole interviste, Hamaguchi adotta strategie, di volta in volta, diverse. A questo proposito rimandiamo al denso e articolato saggio di Markus Nornes che analizza con acume l’approccio di Hamaguchi, evidenziando il legame con il precedente film Intimacies (2012) considerato dal critico una sorta di banco di prova propedeutico alla trilogia sul linguaggio costitutivo del documentario. Le riflessioni Nornes vertono soprattutto sull’utilizzo del camera look, alieno al documentario classico e invece, come è noto, costitutivo del linguaggio della diretta televisiva. Nella sua trilogia Hamaguchi utilizza più volte lo sguardo in macchina per creare una “intimità” con lo spettatore: «l’interlocuzione diretta è fondamentalmente diversa. Due persone, spesso amici o parenti sopravvissuti al disastro, si parlano in modo diretto. Un sopravvissuto comunica con un altro, la macchina da presa sostituisce l’una o l’altra persona […] mentre siamo invitati a partecipare alla conversazione […] Sakai e Hamaguchi hanno creato un approccio gentile e rispettoso al documentario che mette al centro i suoi relatori e consente loro di parlare al proprio ritmo, a modo loro, riguardo a ciò che ritengono prezioso e importante. L’effetto di questo discorso diretto tra due relatori all’inizio è disturbante, ci si sente come un intruso, ma poi si trasforma in una nuova modalità di ascolto nel cinema. Assumiamo la posizione dell’ascoltatore, con l’oratore che si rivolge a noi. Direttamente. Intimamente.»

Questo aspetto è particolarmente evidente in quasi tutte le interviste: l’inizio è “oggettivo” e tradizionale, quindi con macchina da presa a 45° e campo/controcampo tradizionale; poi, quando la materia narrativa degli intervistati si fa drammaturgicamente più emotiva, Hamaguchi adotta lo sguardo in macchina, facendosi da parte e lasciando a noi lo status di spettatori privilegiati. Ribadiamo, ancora una volta, l’unicum della terza intervista alla donna in cui è il regista stesso a guardare in macchina creando quindi un corto circuito ancora più disturbante rispetto a quello già evidenziato nel saggio di Nornes.


 

Titolo originale: ‘なみのおと’(Nami no Oto); regia: Hamaguchi Ryūsuke, Sakai Ko; fotografia: Kitagawa Yoshio; suono: Hwang Young Chang; produzione: Graduate School of Film and New Media, Tokyo University of the Arts (Horikoshi Kenzo, Fujihata Masaki); durata: 142’; uscita in Giappone: 28 luglio 2012

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