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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

VOICES FROM THE WAVES SHINCHI-MACHI (Nami no koe Shinchi-machi) / VOICES FROM THE WAVES KESENNUMA (Nami no koe, Kesennuma) HAMAGUCHI Ryūsuke, SAKAI Kō, 2013

Speciale Hamaguchi Ryūsuke

di Matteo Boscarol

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Voices from the Waves, seconda parte della trilogia dedicata al disastro che colpì il Giappone nord orientale nel marzo del 2021, si compone a sua volta di due documentari, Voices from the Waves Kesennuma e Voices of the Waves Shinchi-machi. Come tutti i lavori della trilogia, anche questi due film sono stati ideati e diretti da Sakai Kō e Hamaguchi Ryūsuke.

I due lavori si distinguono fra di loro solo per il fatto di essere stati girati in due luoghi diversi e con protagoniste le persone che abitano e hanno esperito il disastro in due zone differenti, ma geograficamente molto vicine fra di loro. Entrambi i documentari infatti sono formati principalmente da conversazioni tra due persone, spesso familiari, o colleghi di lavoro sopravvissuti al terremoto ed allo tsunami dell’11 marzo 2011. 

Entrambi i lavori si aprono con immagini del paesaggio silente delle zone colpite dal terremoto e dallo tsunami, nel secondo film si tratta di un paesaggio notturno, il mare, le case in costruzione o i resti di edifici che non ci sono più. Il canovaccio attorno al quale queste conversazioni si svolgono è molto semplice, ognuno comincia a raccontare dove si trovava e cosa stava facendo il giorno in cui il terremoto ed il successivo tsunami colpì il Giappone nord-orientale e da lì si aprono ricordi e riflessioni. La prima conversazione mette davanti padre e figlia, i ricordi dell’arrivo dello tsunami e della grandezza delle onde fa interrompere per un breve momento la conversazione e viene mantenuta anche la parte, senza nessun taglio, in cui il padre si commuove ripensando agli amici e conoscenti che sono scomparsi portati via dallo tsunami. Fin dalle primissime scene viene reso esplicito quindi uno dei punti di forza di questa trilogia, il racconto commosso dell’uomo che ricorda, ma sempre contenuto, diventa per lo spettatore qualcosa di molto più empatico che il profluvio di immagini del disastro. Nel mediascape contemporaneo, ed il triplice disastro giapponese del 2011 è diventato un caso eclatante, le immagini spettacolari spesso si consumano negli occhi dello spettatore nei pochi attimi in cui sono viste, senza lasciare traccia alcuna. Succede allora che le parole, il tono e l’intonazione, in questo caso l’accento nord orientale dell’uomo è molto pronunciato, riescano a comunicare qualcosa di molto più forte e diverso rispetto al lavoro fatto solamente attraverso l’elemento visivo. 

Fra le varie coppie che ascoltiamo e vediamo, amiche, marito e moglie, o colleghi, alcune ricordano la difficoltà di comunicare con i propri cari negli attimi subito dopo il terremoto e il fatto che si rivolsero alle immagini trasmesse in televisione o a quelle diffuse su internet. Una delle parti più interessanti del primo documentario è quella dove ascoltiamo due pescatori, entrambi al momento della conversazione non erano più pescatori ma facevano altre cose per sopravvivere. La differenza fra questa conversazione che è più spigolosa e diretta e tocca i temi della radiazione presente nel mare, riflette il carattere e l’occupazione dei due e fornisce un’interessante ma dolorosa variazione sulle persone e personalità colpite dalla tragedia. Gli stessi problemi che attanagliano la zona nel post disastro, vengono percepiti in maniera diversa a seconda della classe sociale e delle possibilità economiche delle persone. Va notato che alcune di queste conversazioni sono fatte da un abitante della zona e da uno dei due registi, che si sostituisce quindi al secondo conversante, ma ritorneremo su questo importante punto in seguito.

Il secondo documentario è girato, come si evince dal titolo, a Kesennuma, una delle cittadine più colpite dallo tsunami. Il lavoro comincia con la panoramica notturna del porto cittadino e si sposta alla prima conversazione, fatta probabilmente di sera, fra due colleghi che lavoravano in un bar-ristorante. I due condividono il ricordo ed il senso di disperazione e di paura quando sentirono il rumore delle macchine e delle case collidere e distruggersi durante quel tragico giorno. Una coppia di coniugi di mezza età non vuole ricordare il giorno dello tsunami, anche se siamo a poco più di un anno di distanza dalla tragedia e quindi tutto è ancora molto fresco. Emerge qui la volontà delle persone del luogo di dimenticare, non per non ricordare più, ma per guardare avanti e non ancorare la propria vita futura sulla tragedia. Un sentimento che è emerso sempre di più negli anni a venire, specialmente a Fukushima, e che si ritrova spesso in molte comunità colpite da disastri naturali o causati dall’uomo, come ad esempio l’avvelenamento da mercurio e la conseguente sindrome di Minamata. Tsuchimoto Noriaki, uno dei più grandi documentaristi giapponesi e che dedicò gran parte della sua carriera a seguire la vita delle vittime della sindrome di Minamata, ha spesso commentato come molti dei parenti delle stesse vittime, dopo decenni di documentari, cominciarono a guardarlo e trattarlo in maniera fredda. Importante è quindi sottolineare il periodo in cui sono state organizzate queste conversazioni, filmate a distanza di poco più di un anno dal triplice disastro, quando il dolore e le memorie erano ancora fresche quindi, ma allo stesso tempo c’era una visione che cominciava a diventare abbastanza oggettiva da parte delle vittime e che sarebbe molto diversa se queste conversazioni fossero state registrate oggi.

Le coppie che conversano si trovano spesso in uno spazio arioso, specialmente nel primo documentario, all’interno di edifici, ma con grandi vetrate che permettono di vedere l’esterno. L’ambientazione scelta quindi da un senso di ampiezza e di grandiosità che un luogo chiuso non avrebbe permesso. Fra conversazione e conversazione ci sono dei brevi “pillow shots” per così dire, scene che mostrano la zona in ricostruzione, il mare, le onde, gli escavatori e le gru che sono ancora costantemente in attività. Anche se spesso queste immagini che si interpongono fra le conversazioni catturano il paesaggio ripreso dalla macchina in corsa, tutta la trilogia si distingue dalla maggior parte dei documentari realizzati sul terremoto e sullo tsunami in quanto è fatta di immagini per lo più statiche. Molti dei lavori che hanno cercato di documentare le condizioni della popolazione del luogo ed il triplice disastro nel corso degli anni, lo hanno infatti fatto attraverso riprese in corsa, anche perché l’ampiezza del territorio colpito dallo tsunami lo richiede, ma questa scelta di ripresa è finita per diventare a lungo andare quasi uno stile documentaristico e un cliché. 

È significativo inoltre che i due documentari non siano costruiti con interviste, pratica usata ed abusata nel periodo che seguì il triplice disastro e che stabilisce un rapporto di potere e di imparità fra intervistato e colui che pone le domande. Le conversazioni fra due persone invece, pur in una messa in scena ed uno spazio costruito, ci sono almeno due videocamere e i due registi, ottengono qualcosa di diverso. Nessuno interviene dall’esterno, naturalmente c’è il montaggio, ma si crea una sorta di dialogo orizzontale e paritario, in quanto si tratta di persone che hanno fatto esperienza in prima persona della tragedia. In questo senso, anche se il fatto che i due registi si inseriscano in alcune conversazioni è interessante, quasi a rivelare “l’artificialità” dei lavori, a lungo termine finisce per indebolire l’impatto dei due lungometraggi. Stessa cosa si potrebbe dire per le varie angolazioni e tecniche usate per filmare i due conversanti (si legga qui per approfondire), se tutto questo funziona in maniera quasi sublime in alcuni casi, in altri esaspera il senso di artificiosità e distrae dal contenuto parlato. C’è una parte in cui tutte queste tecniche vengono però massimizzate, si tratta dell’ultima conversazione del secondo documentario, quando una giovane coppia, marito e moglie di 26 e 23 anni, tra silenzi, imbarazzi, sorrisi nervosi, telefonini che squillano, e sbadigli, fanno trasparire la forza cinematica del non detto, dei gesti e delle pause, rendendo questa scena forse la più toccante e divertente allo stesso tempo, di tutte quelle viste nei due lavori. 


Titolo originale: ‘なみのこえ 気仙沼 ’(Nami no koe Kesennuma),  ‘なみのこえ 新地町’(Nami no koe Shinchi-machi); regia: Hamaguchi Ryūsuke, Sakai Kō; fotografia: Sasaki Yasuuyuki, Kitagawa Yoshio; suono: Suzuki Akihiko, Hwang Young Chang; produzione: Silent Voice (Serizawa Takashi, Aizawa Kumi; durata: 103’ e 109’; uscita in Giappone: 22 dicembre 2013.

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