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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

THE BALLAD OF NARAYAMA (Narayama bushikō, KINOSHITA Keisuke, 1958)

SPECIALE KINOSHITA KEISUKE

di Marcella Leonardi

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Tratto dall’omonimo romanzo di Fukazawa Shichirō, The Ballad of Narayama racconta una leggenda tradizionale mediante forme cinematografiche inedite e sperimentali, ispirate al teatro classico giapponese. Il sensibile umanesimo di Kinoshita affiora tra straordinari tecnicismi, confermando la capacità del regista nell’offrire uno sguardo “totale” sul proprio paese, tra arte, sociologia e storia. 

In un villaggio di montagna, dove il cibo scarseggia e la sopravvivenza è ardua,  la tradizione impone che al compimento dei settant’anni gli anziani vengano portati sulla cima del Monte Nara e lasciati lì a morire. L’anziana sacrificale al centro del racconto è Orin, una donna semplice che trascorre i suoi giorni lavorando nella risaia e preoccupandosi per le sorti della famiglia. Suo figlio Tatsuhei non sopporta l’idea di perderla, ma Orin è decisa a compiere il pellegrinaggio finale.

In un’intervista a «Kinema Junpō», a proposito della sua straordinaria prolificità, Kinoshita dichiarò: «Non posso farci nulla… Le idee per i film mi piombano in testa come palline di carta in un cestino».
Se si pensa a ciò che Kinoshita è riuscito a realizzare e sperimentare nell’arco della sua carriera, non si può che restare stupiti. La sua passione per le “forme possibili” del cinema lo ha portato a riflettere sui codici dei generi, esplorarli e modificarli. Da un iniziale realismo, Kinoshita si è via via addentrato in un percorso di originalità ed audacia espressiva: ha usato il colore per primo, enfatizzandone il valore astratto e metaforico; ha trasformato i tratti più severi e crudeli di storia e società in poesia, attraverso l’uso di mascherini che trasfigurassero la sofferenza e il passato; ha inclinato la macchina da presa ottenendo angoli olandesi in cui tradurre lo smarrimento e la diversità dei personaggi rispetto al contesto. In tutta la sua propensione irrefrenabile nei confronti delle immagini e del loro potere, Kinoshita ha anticipato le rivoluzioni degli anni ’60, i postmodernismi, la disgregazione del racconto cronologico in frammenti onirici, flashback e tempo interiore. Artista totale novecentesco, Kinoshita ha anche studiato con serietà il rapporto tra immagine e colonna sonora, integrandole in narrazioni sinestetiche e complesse.

The Ballad of Narayama rappresenta forse il momento di maggior sperimentazione e meraviglia stilistica nell’arco di una carriera contraddistinta dall’eccezionalità: un film che nella brevità dei suoi 98 minuti fonde storia e futuro, tradizione e avanguardia. Il regista aderisce agli stilemi del teatro kabuki senza tradirli: li trasforma in linguaggio cinematografico di grande raffinatezza, ma accessibile in senso popolare. Introdotto dal kuroko, il tradizionale macchinista teatrale incappucciato e vestito di nero, il film “apre il sipario” sulla leggenda e mette immediatamente a nudo i meccanismi della finzione. (1).

kuroko1(1)

Riprendendo la tradizione crudele dell’Obasute – ovvero l’abbandono degli anziani alla morte, in una società che rifiutava di occuparsi di loro –  Kinoshita mette in scena la freddezza universale e senza tempo che circonda la vecchiaia. La distopia del recente Plan 75 (2022, Hayakawa Chie), metafora del contemporaneo Giappone invecchiato e suicida, non fa che rendere The Ballad of Narayama ancora attuale: l’idea di “sbarazzarsi” degli anziani, come convenzione sociale comunemente accettata e prosciugata di qualsiasi obiezione morale o emotiva, continua a sopravvivere (2).
In passato questo atteggiamento assunse addirittura una dimensione rituale, ed è proprio la sistematizzazione in folklore e leggenda a risaltare nell’allestimento antinaturalistico del regista.

plan75(2) Obasute moderno: Plan ’75

Kinoshita pone al centro dell’opera la disumanità della pratica, omettendo esplicite sbavature sentimentali. La sua abilità nel mantenere una distanza, concentrandosi sul rigore formale del Kabuki, paradossalmente genera un’altissima tensione emotiva. Il regista giunge alle pendici più estreme del suo percorso all’interno della società giapponese, rivelando, attraverso la trasfigurazione dell’arte, la pulsione di morte innescata nel singolo individuo. Orin, ancora sana e dedita alacremente al lavoro, teme lo scherno della comunità: giunge persino a distruggersi i denti con una pietra (3), per assecondare gli stereotipi sulla vecchiaia. Nel pellegrinaggio a Narayama, desiderato con orgoglio e determinazione, intravede un disegno divino ed un dovere morale.

denti(3)

Viaggio esperienziale verso il nulla, il film allestisce uno spettacolo tanto più colmo di vita e variopinto – con sipari che si aprono, fondali che scompaiono, trucchi, albe e tramonti in successione, campi dorati e lune misteriose (4,5,6) – quanto più si avvicina alla morte, fino alla desolazione funebre e spirituale di Narayama. Kinoshita trasforma l’archetipo teatrale in cinema totale e fiammeggiante, in un trionfo di finzione e technicolor, non dissimile da Il Mago di Oz (1939, Victor Fleming): un’esperienza di pura meraviglia, filosofica ed estatica, realizzata con un’audacia tecnica e sperimentale sorprendenti.

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Bellissime le uscite di scena dei personaggi, che “scorrono” lateralmente mentre la luce si spegne su di loro, imitando i cambi di scenografia tramite palcoscenico rotante (mawari butai): uno dei tanti espedienti tecnici cui ricorre Kinoshita per trasformare lo spazio teatrale in libertà cinematografica (7). 

7(7)

Il regista lavora sulla profondità di campo, stratifica l’immagine mediante “quinte” teatrali, si serve di fondali che scorrono rapidi, ad esprimere la sorpresa o l’emozione dei protagonisti. Gli stati d’animo cambiano assieme ai colori; tutto è magnifico e intenso, per confondere la bellezza del vivere col dolore della morte. Sono presenti, com’è tipico dello stile del regista, molti carrelli orizzontali, quasi a ricordare, come disse Jean Cocteau, che la vita è una caduta orizzontale.
Spesso Kinoshita ricorre ad ampi movimenti a 360°, per mostrare gli artifici del set; altre volte invece predilige immagini statiche e frontali, la cui astrazione scompone lo spazio in forme geometriche. Straordinario l’uso della luce, che talvolta funge da mascherino per isolare i protagonisti e concentrare su di loro l’attenzione degli spettatori.

Kinoshita riserva i primi piani all’enfatizzazione di emozioni primarie, mentre il campo medio è lo strumento d’elezione per un’osservazione capillare del destino dei protagonisti. C’è una cura meticolosa nella collocazione del personaggio nello spazio che li circonda: la Natura, rigogliosa ed espressiva, fa da controcanto ai paesaggi interiori. Così visibilmente falso e ricostruito in studio, il contesto amplifica con la sua stilizzata perfezione la transitorietà dell’esperienza umana: si pensi alla bellezza di alberi e fiori primaverili, ma anche alla presenza minacciosa di corvi, nebbia e roccia arida della montagna invernale. Giunti alla montagna della morte, si spalanca ai nostri occhi una scenografia orrorifica e poetica, tra atmosfere indistinte, cielo plumbeo e scheletri raccapriccianti (8, 9): una visione simile a quella che Lucio Fulci, più di 20 anni dopo, allestirà nel finale di E tu vivrai nel terrore… L’aldilà (1981).

morte(8): Il paesaggio funebre di Narayama

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(9) Come Narayama: L’aldilà di Lucio Fulci

Come spesso accade nel cinema di Kinoshita, dolore e sofferenza vengono ingoiati dal Tempo, metaforizzato dal passaggio del treno nella sequenza finale, mentre il fascino della leggenda si insedia per sempre nell’immaginario. Nel 1983 Imamura gira una nuova versione più scabra e realista, vincendo la Palma d’Oro a Cannes; ma anche il cinema contemporaneo non riesce a sottrarsi al suo retaggio, come dimostra il recente Come on Irene (2018) di Yoshida Keisuke, che offre una inedita versione “al femminile” del viaggio finale sotto la neve (10).

comeonirene(10) Come on Irene, Yoshida Keisuke (2018)

Titolo originale: 楢山節考; regia e sceneggiatura: Kinoshita Keisuke; soggetto: dall’omonimo romanzo di Fukazawa Shichirō; fotografia: Kusuda Hiroyuki; montaggio: Sugihara Yoshi; scenografia: Umeda Chiyo’o, Komaki Mototsugu; costumi:  Suguyama Toshizaku; musica: Kinoshita Chūji;  interpreti e personaggi: Tanaka Kinuyo (Orin), Takahashi Teiji (Tatsuhei); Mochizuki Yūko (Tamayan); produzione: Shōchiku; durata: 98’; prima uscita in Giappone: 1 giugno 1958.

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