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SONATINE CLASSICS

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Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

DEDICATION OF THE GREAT BUDDHA (Daibutsu kaigen, KINUGASA Teinosuke, 1952)

Retrospettiva Kinugasa – Il Cinema Ritrovato – Bologna 24 giugno – 2 luglio 2023

di Matteo Boscarol

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In un lungometraggio, per certi versi simile a tanti altri prodotti dalla Daiei nei decenni successivi alla fine del conflitto, dove il tema principale è quello dell’impresa artistica della costruzione del Grande Buddha e del conflitto di classe su cui la vicenda si sviluppa, ciò che brilla di luce propria è Kyō Machiko, attrice come poche altre capace di simbolizzare la vitalità del cinema giapponese del periodo. 

In occasione del trasferimento della capitale a Nara, l’imperatore ordina la costruzione di un Buddha gigante per la pace e la felicità di tutte le persone sulla terra. Tuttavia, all’interno della corte si scatena una lotta fra due fazioni, quella che vuole la costruzione della statua e quella che si oppone ad essa, con una conseguente serie di incidenti provocati ad hoc che ne rallentano la creazione. Kunihito, il giovane e talentuoso artista che viene incaricato del progetto, non solo deve affrontare queste difficoltà, ma anche la gelosia di Mayame, la ragazza che ama, ma che inevitabilmente finisce per trascurare. 

A Nara, l’antica capitale giapponese e all’interno del Tōdai-ji, uno dei più grandi e più importanti templi buddisti dell’arcipelago, si trova una delle statue di bronzo più grandi del paese, il cosiddetto Daibutsu, o Grande Buddha. Questo venne costruito nel 752 e per celebrare i 1200 anni della sua creazione, nel 1952 la Daiei decise di dedicare un lungometraggio alle vicende che portarono alla sua costruzione. Il film arriva in una congiuntura storica importante, da una parte il cinema giapponese viene “riscoperto” dall’Occidente proprio in quegli anni, Rashomon fu presentato a Venezia proprio nel 1952 e I racconti della luna pallida d’agosto l’anno successivo, dall’altra il paese asiatico esce dal periodo dell’occupazione statunitense sempre nello stesso anno. Questo provoca un’apertura verso l’esterno ed una naturale riconnessione con la propria storia passata e la ricerca di un senso di identità, se non nazionale, almeno culturale comune. 

Ma all’interno di questa mitizzazione e celebrazione della propria storia e cultura da cui il film peraltro non sfugge, Kinugasa porta in primo piano anche ciò che di solito sta sullo sfondo di queste imprese eroiche, in questo caso artistiche, e cioè la divisione di classe che è ciò che permette la costruzione stessa dell’enorme statua. Da una parte la nobiltà che sguazza nei pettegolezzi di corte e si fa beffe di Kunihito, l’artista che non vuole altro che completare la sua opera, dall’altra il popolo dei lavoratori chiamati a sudare per erigere il Grande Buddha. 

Il film ci ricorda costantemente come la statua del Buddha sia grazia e bellezza delle forme e dei lineamenti, ma anche risultato di lavoro fisico e enormi colate di metallo fuso che spesso si rivelano mortali per gli operai che vi lavorano. Una delle scene dove questa dualità viene più messa in evidenza in maniera diretta è quella in cui viene contrapposto Kunihito, invitato a palazzo circondato dalla leggerezza dei veli delle donne nobili e dalla luce eterea che illumina l’edificio, ai lavoratori, ammassati l’un l’altro in una catapecchia, sporchi e sudati e che stanno aspettando che cessi la pioggia per poter ricominciare a lavorare. 

Il popolo quasi sempliciotto e rude e facilmente impressionabile è un topos che ritorna spesso in molti film prodotti dalla Daiei nei decenni successivi alla fine della guerra, l’ammirazione e quasi l’incredulità davanti alla grandezza e bellezza della grande statua, trovano un corrispettivo ad esempio in molti lungometraggi con protagonisti mitici giganti con poteri soprannaturali, i tre film dedicati a Daimajin (tutti usciti nel 1966 e diretti da tre diversi registi, fra cui anche Misumi Kenji che qui è assistente di Kinugasa) o in Kujira gami (The Whale God) del 1962 con un Katsu Shintarō in grande spolvero.

La classe dei lavoratori e del popolo comune trova i suoi pochi attimi di felicità solo quando può godere della sensuale danza di Mayame, una di loro, colei che finisce per innamorarsi di Kunihito. Come si diceva in apertura, Kyō Machiko è un raggio di luce in tutto il film, la sua presenza magnetica e selvaggia illumina le scene in cui compare di volta in volta. Un esempio della vitalità e bravura dell’attrice, che ricordiamo cominciò la sua illustre carriera come danzatrice e cantante nel teatro di rivista ancora adolescente, che incapsula alla perfezione anche l’ondata carnevalesca che travolge il popolo nei momenti di festa è rappresentato dal secondo incontro tra Mayame e Kunihito, quando scocca la scintilla. Il ballo di Mayame si trasforma in una sorta di corsa dove tutti si precipitano attraverso il bosco quasi in preda ad una trance e per il modo in cui l’azione è organizzata e messa in scena, sembra quasi un rito orgiastico.

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Titolo originale: 大佛開眼 (Daibutsu kaigen) regia: Kinugasa Teinosuke; assistente alla regia: Misumi Kenji; soggetto: Nagata Hideo; sceneggiatura: Yagi Ryūichirō; fotografia: Sugiyama Kōhei; scenografie: Itō Kisaku; musiche: Dan Ikuma; interpreti e personaggi: Hasegawa Kazuo (Kunihito), Kyō Machiko (Mayame), Mito Mitsuko (Sakuyako), Hidaka Sumiko (Morime), produzione: Daiei; produttore: Nagata Masaichi; durata: 128’; prima uscita in Giappone: 13 novembre 1952; presentato al festival di Venezia 1953. 

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