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Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

Noruwei no mori (ノルウェイの森, Norwegian Wood)

Re-visione
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Noruwei no mori (ノルウェイの森, Norwegian Wood). Regia e sceneggiatura: Tran Anh Hung; soggetto: dall’omonimo romanzo di Murakami Haruki; musica: Jonny Greenwood; interpreti: Matsuyama Ken’ichi, Kikuchi Rinko, Mizuhara Kiko, Tamayama Tetsuji, Kirishima Reika, Kōra Kengo, Hatsune Eriko; durata: 133′; prima: 11 dicembre 2010.

Link: Sito ufficialeTrailer (Youtube) – Mark Schilling (Japan Times) – Lindsay Nelson (Midnight Eye) – Chris MaGee (Toronto JFilm Pow-Wow)
PIA: Commenti: 3/5   All’uscita delle sale: 61/100 
Punteggio ★★

Presentato all’ultima edizione del Festival di Venezia, Norwegian Wood ha ottenuto una reazione abbastanza tiepida da parte della critica, certamente meno favorevole di quanto era accaduto per alcuni dei precedenti film del regista franco-vietnamita Tran Anh-hung, come Il profumo della papaia verde (1993) e Cyclo (1995). Anche Giacomo Calorio, nella sua recensione in questo blog, ha attaccato il film per il suo eccessivo e «frigido» formalismo. Pur condividendo molte delle osservazioni lì contenute, vorrei liberarmi qui dagli obblighi della valutazione estetica per fare alcune semplice considerazioni relative al romanzo di Murakami, al film di Tran e al loro rapporto.

Un romanzo non così atipico

Pubblicato nel 1987 e tradotto in 33 lingue, Norwegian Wood è probabilmente il romanzo più conosciuto di Murakami, ma certamente non il più rappresentativo della sua opera, in quanto privo di quella dimensione fantastica, altrove ricorrente, che infrange le certezze del quotidiano, e che apre ai protagonisti dei suoi romanzi – come accade anche nel recente 1Q84 – dimensioni ‘altre’ rispetto a quelle della loro vita ordinaria. Nell’introduzione all’edizione Einaudi del romanzo, Giorgio Amitrano individua come elemento costitutivo dello stile dello scrittore «l’esistenza di due mondi, due realtà in opposizione speculare, il mondo di qua (kocchi no sekai), e il mondo di là (acchi no sekai)». Quest’aspetto conferisce alle opere dello scrittore una struttura binaria che gioca sul rapporto e confronto fra due universi (ma anche sul più o meno sottile penetrare dell’uno nell’altro). In Norwegian Wood, il mondo di là – quello dell’orizzonte fantastico – è assente, ma rimane però l’idea di una struttura binaria che regge la narrazione e ne determina il senso. Tale struttura non è più giocata sulla contrapposizione fra mondo reale e mondo fantastico, bensì su quella fra le due giovani amanti di Watanabe che si contrassegnano, almeno sotto molti aspetti, per la loro antiteticità: tanto Naoko è chiusa, introversa e incline a sprofondare nel proprio disagio mentale, quanto, invece, Midori è estroversa, esuberante e piena di vita (nonostante le morti che la circondano). Diviso fra queste due immagini femminili, Watanabe dovrà scegliere (o, come vedremo meglio dopo, qualcosa sceglierà per lui) quale seguire. Anche in Norwegian Wood, dove l’elemento fantastico è assente e il mondo è solo quello della realtà, è la presenza di una struttura binaria, con due giovani donne che prendono il posto di due mondi, e che sono esse stesse due mondi, a governare l’opera e a determinane l’organizzazione semantica.

Perché proprio quella canzone?

Prima di essere il titolo del romanzo di Murakami e del film di Tran, Norwegian Wood era quello di una celebre canzone dei Beatles. È noto come i romanzi di Murakami siano pieni di citazioni di canzoni pop e rock occidentali, ancor più frequenti degli innumerevoli cocktail – dai nomi altrettanto occidentali – che i protagonisti dei suoi romanzi bevono – insieme al whisky – con notevole disinvoltura. In innumerevoli situazioni, rientrati a casa o alla guida di un’auto, i personaggi dello scrittore ascoltano una o più canzoni di cui immancabilmente sono indicati titolo ed interprete. Per quanto Tran riduca drasticamente questa componente citazionista – non solo per quel che riguarda le canzoni, ma anche per i romanzi letti dal protagonista –, anch’egli non rinuncia alla presenza della canzone dei Beatles, che nel film sentiamo in almeno due diverse circostanze: una quando a suonarla con la chitarra è Reiko, l’amica di Naoko, e l’altra quando essa accompagna l’inizio dei titoli di coda. Il ruolo di questa canzone – rafforzato anche dal fatto di dare il titolo sia al romanzo sia al film – è, innanzitutto, quello di evocare un’epoca, quella della fine degli anni Sessanta, di cui essa, insieme alle altre canzoni dei Beatles, è in qualche modo un simbolo. Poi, di introdurre una dimensione di nostalgia verso quegli anni, che erano anche quelli della gioventù del protagonista, che ora ricorda quegli eventi. Infine, di sottolineare, come accade in ogni romanzo di Murakami, l’importanza assunta dalla cultura pop occidentale nella società giapponese.
Ma perché proprio Norwegian Wood? È vero: la canzone narra di una notte trascorsa da un giovane a casa di una ragazza, una situazione che si verifica più volte nel corso del romanzo e del film, e che quindi si adatta bene al loro universo diegetico. Ma, forse, la giusta risposta alla domanda, che ci si è appena posti, sta nelle prime parole della canzone: «I once had a girl or should I say she once had me» («Una volta avevo una ragazza o forse sarebbe meglio dire che lei aveva me»). Queste parole stabiliscono un forte legame fra il “narratore” della canzone e quello del romanzo-film. Esse ci dicono subito che colui con cui avremo a che fare, il giovane Watanabe, diviso fra Naoko e Midori, è qualcuno che più che possedere («io avevo») è posseduto («lei aveva me»), qualcuno che più che agire su ciò che lo circonda, “è agito” dal mondo in cui vive. Sono le ragazze che incontra che decidono per lui, gli impongono di vedersi a determinate cadenze, scelgono per entrambi cosa fare e dove andare. Così come è l’amico Nagasawa – che gioca un po’ il mefistofelico ruolo di mentore negativo – che lo trascina nelle sue avventure erotiche con ragazze incontrate in un bar e poi trascinate in un love hotel. Watanabe è un eroe apatico, senza (particolari) qualità, se non per il fatto di essere onesto, amare la buona letteratura e la buona musica, e così come il narratore della canzone dei Beatles è qualcuno che sembra essere più trascinato dagli eventi che non qualcuno in grado di determinarli (e anche la scelta finale fra Naoko e Midori sarà una scelta causata da fatti indipendenti dalla sua volontà).

Parliamo di sesso

Un altro aspetto forte del romanzo, presente quasi in egual misura nel film, è quello della sua franchezza sessuale. Ovviamente non siamo di fronte a un’opera pornografica, e neanche direi a una erotica – nonostante le diverse scene di sesso, nessuna di queste sembra voler trasmettere allo spettatore un senso di eccitazione fisica. Pur frequentemente agito, il sesso di Norwegian Wood è soprattutto parlato. E parlato senza mezzi termini con riferimenti espliciti all’erezione maschile, alle dimensioni del pene, alla secchezza vaginale o al suo contrario, alla masturbazione, al sesso orale, all’orgasmo e così via. Non solo, poi, il sesso “è parlato” poco prima del suo accadere (Naoko che chiede a Watanabe se può masturbarlo), ma anche ricordato (il lungo racconto di Kaori, questo omesso nel film, riferito all’involontaria, ma dirompente, esperienza erotica omosessuale con una ragazzina di 13 anni) e immaginato (più volte Midori descrive le sue fantasie erotiche al limite del sado-masochismo a Watanabe, e gli chiede di portarla a vedere un film pornografico «molto sporco», cosa che nel romanzo, ma non nel film, accadrà). In sostanza Norwegian Wood è sì una sorta di Bildungsroman – che deve molto alla letteratura europea ottocentesca –, la storia di un’educazione sentimentale, un romanzo d’amore, che sa, però, dare il giusto peso al ruolo del desiderio sessuale nel sentimento amoroso e a quanto queste due dimensioni siano strettamente dipendenti l’una dall’altra.

Emozioni in movimento

Un ulteriore elemento importante del rapporto fra il romanzo e il film riguarda l’uso del movimento. Nel romanzo di Murakami i primi incontri fra Naoko e Watanabe si consumano sempre in lunghe passeggiate per le strade di Tokyo, con la donna di qualche passo in avanti rispetto all’uomo. Per inciso, questa scelta prossemica, da un lato, rovescia i tradizionali rapporti di genere giapponesi, che volevano che l’uomo fosse in strada sempre di qualche passo avanti rispetto alla donna; dall’altra, sono un nuovo modo tramite cui si evidenzia il ruolo attivo di Naoko (è lei a guidare il cammino) e quello passivo di Watanabe (che, invece, è guidato). Tran riprende e amplifica quest’idea relativa al movimento, che è imprescindibilmente un aspetto forte del cinema come forma d’espressione, costruendo diverse scene giocate su conversazioni dinamiche, in cui i personaggi dialogano fra loro non seduti a un tavolo – cosa che comunque accade più volte – ma mentre camminano, in spazi chiusi o aperti che siano. Non solo ci sono le passeggiate iniziali a Tokyo fra Watanabe e Naoko (che la voce narrante del protagonista definisce come «un rituale per curare le nostre anime ferite»), ma anche quella, un piano sequenza di oltre 4 minuti, in mezzo ai boschi di Kyoto, in cui Naoko narra a Watanabe cosa le impedì di fare l’amore con Kizuki; quella in cui Midori racconta ancora a Watanabe di sé e dei rapporti con la sua famiglia; quella in cui la stessa Midori chiede, sempre a Watanabe, a che cosa pensino i suoi compagni quando si masturbano; e poi, in almeno due diverse circostanze, ci sono ancora le scene in cui il protagonista riceve le lettere di Naoko, e le legge camminando vorticosamente nei corridoi e nei locali del suo dormitorio. Si tratta di scene che al notevole movimento intradiegetico dei personaggi aggiungono quello discorsivo dei travelling (si veda, in particolare, nell’ultima scena citata, il movimento rotatorio della macchina da presa che mostra la tromba delle scale su cui Watanabe sta salendo), che ne accentua la tensione narrativa, il gioco del fluire dei sentimenti, in un efficace esempio di messinscena filmica in grado di tradurre l’emozione in movimento.

A piedi nudi

Chiudiamo con un’ultima, e apparentemente marginale, questione riguardante i cosiddetti «equivalenti funzionali». Nell’adattamento di un romanzo in un film è possibile ottenere uno stesso effetto semantico attraverso una soluzione diversa da quella dell’originale. Nell’opera di Murakami, verso la fine della storia, Kaori, dopo il suicidio di Naoko, va a far visita a Watanabe e i due fanno l’amore. L’idea su cui questo fatto si regge è che per Watanabe fare l’amore con Kaori significhi farlo ancora, per un’ultima volta, con l’amata Naoko. In questo momento Kaori e Naoko sono la stessa persona. Il romanzo veicola quest’associazione attraverso due diverse soluzioni: da una parte fa sì che Kaori indossi un capo d’abbigliamento che era di Naoko, dall’altra mette in bocca a Watanabe alcune considerazioni personali sulla somiglianza del corpo di Kaori con quello di Naoko. Indossare gli stessi vestiti ed avere un corpo simile fanno così sì che Naoko, in qualche modo, riviva in Kaori. Nel film, Kaori, che di nuovo fa l’amore con Watanabe, non indossa i vestiti di Naoko, né la voce narrante dello stesso Watanabe enuncia una somiglianza fisica fra i corpi delle due donne. Eppure l’idea che Kaori stia per Naoko, sia in qualche modo lei, cosa fondamentale per dare il giusto senso all’episodio, è ugualmente evocata tramite un equivalente funzionale. C’è un’inquadratura in questa scena che mostra Kaori, seduta sul letto di Watanabe, guardare nel vuoto, seguita da un piano ravvicinato dei suoi piedi nudi. Presa in sé, questa seconda immagine appare abbastanza sconcertante e sarebbe davvero arduo coglierne il senso. Ma poiché il cinema è un’arte sintagmatica, dove il significato delle immagini si afferma anche, e soprattutto, nella loro correlazione, il senso di quest’inquadratura diventa chiaro quando l’associamo all’immagine del suicido di Naoko, che ne mostrava solo i piedi nudi del corpo appeso al ramo di un albero. I piedi nudi di Naoko diventano così quelli di Kaori, in un’associazione drammatica dall’impatto ben più forte (se non altro grazie al suo esplicito legame col suicidio) di quel che avrebbero potuto avere uno stesso vestito o le parole di Watanabe.
[Dario Tomasi]

Leggi anche la  Recensione di Giacomo Calorio

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