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Azemichi no dandi (あぜ道のダンディ, A Man With Style)

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Azemichi no dandi (あぜ道のダンディ, A Man With Style). Regia, soggetto e sceneggiatura: Ishii Yūya. Fotografia: Hashimoto Kiyoaki. Musica: Nomura Chiaki. Montaggio: Sagara Naoichiro. Interpreti: Mitsuishi Ken, Taguchi Tomorowo, Morioka Ryū, Yoshinaga Jun, Sometani Shōta. Produttori: Shibahara Yūichi, Udagawa Yasushi. Durata: 110′. Uscita nelle sale giapponesi: 18 giugno 2011
Link: Sito ufficialeMark Schilling (Japan Times) – 
PIA: Commenti: 3,5/5    All’uscita delle sale: 69/100 
Punteggio ★★★1/2 

Miyata (Mitsuishi Ken) è un cinquantenne che vive con i figli adolescenti Toshiya (Morioka Ryū) e Momoko (Yoshinaga Jun) e lavora per una società di consegne a domicilio. La moglie è morta di cancro molti anni prima, quando i figli erano piccoli, e tutti e tre vivono sotto il segno di questa mancanza. Miyata si ostina a perseguire l’ideale di uomo “tosto” che si è ripromesso di essere da quando, tredicenne, era stato oggetto di bullismo da parte di compagni di scuola più grandi. Il suo unico amico è Sanada (Taguchi Tomorowo), che condivise con lui l’esperienza di bullismo e che lo ha sempre seguito nella vita; ancora adesso i due si ritrovano regolarmente per bere e per parlare. Quando i figli vengono ammessi all’università e debbono trasferirsi a Tokyo e contemporaneamente Miyata crede di essere affetto da un cancro, nella costruzione dell’uomo forte compaiono alcune crepe che spingono verso l’emersione dei sentimenti e la manifestazione delle emozioni.

Ishii Yūya, l’enfant prodige del cinema giapponese che a 24 anni ha vinto il PIA Film Festival 2007 e subito dopo ha realizzatovari film in pochi anni, tutti interessanti nel loro carattere bizzarro, aveva già fatto un salto dalle asperità sperimentali degli inizi a un cinema più strutturato e narrante nel 2010 con Kawa no soko kara konnichiwa (Sawako Decides). Ora compie un ulteriore passo avanti con questo film apparentemente convenzionale, ma in realtà originale e coraggioso, che ci offre il convincente ritratto di uomo, di un padre, giapponese di mezza età. Il titolo si potrebbe tradurre con qualcosa come “il figo della stradina lungo la risaia”, cioè Miyata stesso, e si riferisce a una delle scene del film, quando Miyata e Sanada, studenti di scuola media, percorrono la stradina fra i campi da casa a scuola e Miyata incita entrambi a essere sempre dei veri uomini, che proteggono i deboli, non mostrano i loro sentimenti e non piangono mai. E non è un caso che il film si apra e sichiuda con una scena che è quasi la stessa, con Miyata cinquantenne sempre in bicicletta, che incita se stesso ad alta voce. 
Il profilo che esibisce Miyata, o meglio che Miyata vorrebbe gli fosse proprio, è o almeno è stato fino a pochi anni fa il profilo tipico dell’uomo giapponese, secondo cui mostrare i propri sentimenti, non solo in pubblico, ma anche in privato, è segno di debolezza o comunque fonte di imbarazzo. Questa chiusura alle emozioni è un vincolo anche quando Miyata, consapevole delle difficoltà della propria vita, vorrebbe chiedere aiuto ma “non può”,  poiché il codice macho che persegue gli impedisce di trovare il coraggio di chiedere aiuto. Complementare a questo sentire c’è un altro aspetto comportamentale tipico dei giapponesi e cioè il non toccarsi pubblicamente (ma anche in privato), neppure fra parenti. L’insieme di questi e altri comportamenti, esprime e sostanzia a sua volta un sentire austero, fatto di aspetti positivi e negativi come tutti i modi di sentire, ma che porta a quella che unanimemente è considerata una caratteristica diffusa tra i giapponesi e cioè la hyōgenbusoku (表現不足), la mancanza di comunicazione, la difficoltà ad esprimere i propri sentimenti. Miyata, per esempio, vive solo per i propri figli ma non lo dà a vedere neppure a loro; è preoccupato per il loro futuro e per la sua autorevolezza nei loro confronti  ma di fatto non li conosce, non sa chi siano, per saperlo spia nelle loro camere quando loro sono fuori.
L’ideale di uomo che persegue Miyata, un uomo che non mostra le proprie emozioni, complica ulteriormente le relazioni famigliari, laddove i figli tendono già naturalmente a non rispettarlo. E’ questo un altro fenomeno della società giapponese contemporanea che è per noi non immediatamente percepibile: come ha rilevato il regista stesso in una intervista al Japan Times, “molti padri giapponesi di oggi sono semplicemente ignorati dalle moglie e dai figli”, a differenza che “in Occidente, dove i padri hanno un ruolo e una autorità ancora definiti (…)”. La combinazione di questa scarsa considerazione per il padre da parte dei figli e il suo atteggiamento intransigente in omaggio al suo ideale di uomo forte, conducono quasi all’incomunicabilità e a una situazione di convivenza forzata fra estranei.
Con la consapevolezza di questi elementi, si comprende meglio il significato di due scene che hanno valenza topica: la conversazione sul letto della figlia e il bagno pubblico con il figlio. A proposito di tensione drammatica, va detto che a differenza di altri registi non convenzionali che si sono cimentati nel family drama – basti pensare a Chanto tsutaeru (Be Sure to Share, 2009) di Sono Sion, a Yomei ikkagetsu no hanayome (April Bride, 2009) di Hiroki Ryūichi e, in parte, a Tōkyō kōen (Tokyo Park, 2011) di Aoyama Shinji – Ishii ha rinunciato volutamente ai toni melodrammatici che il genere porta con sé quasi automaticamente e ha scelto un taglio tra l’oggettivo e l’ironico proprio per prendere le distanze dai suoi personaggi, senza però rinunciare alle emozioni vere. Nonostante questa volontà di mantenere i toni calmi, le due scene citate non possono non toccare. Nella prima, Miyata, dopo una bevuta con il suo amico nel corso della quale ammette che lui non è l’uomo forte che ha sempre dichiarato di essere, va a parlare con la figlia e per la prima volta si apre a lei, mostrando le sue debolezze e il suo enorme affetto per lei. Nella seconda scena, quando accompagna il figlio a Tokyo nella nuova casa, i due vanno insieme ai bagni pubblici. Fra silenzi e imbarazzi, Miyata chiede a uno stupito figlio se può lavargli la schiena, cosa che fanno solo le mogli e i genitori affettuosi con i bambini piccoli o i figli adulti con i gneitori anziani. Nella vita di adulti è però un fatto molto raro e forse è la prima volta che i due protagonisti si toccano e il momento è commovente persino per uno spettatore appartenente a un paese che fa della skinship una delle sue bandiere.
Nel delineare il ritratto di Miyata e le vicende delle persone intorno a lui, Ishii introduce qua e là tocchi di fantasia, come la bellissima scena da musical della canzone amata dalla moglie morta che viene cantata progressivamente insieme da tutti i membri della famiglia, inclusa la moglie stessa. Già nei film precedenti di Ishii erano presenti spesso spunti fantastici o comunque bizzarri ma in questo film i tocchi autoriali sono resi più funzionali all’amalgama della storia, aumentando così la loro stessa efficacia.
Il film riesce anche e soprattutto agli attori, condotti con maestria. Mitsuishi Ken viene per la prima promosso al ruolo di prima’attore e restituisce la cortesia con una interpretazione straordinaria, Taguchi Tomorowo conferma le sue grandi doti di attore raffinato che sa lavorare sui dettagli, Yoshinaga Jun è affascinante nella sua acerba timidezza adolescenziale.
Infine, se proviamo a sollevare la testa dal già pur ampio ambito della cultura giapponese, il personaggio di Miyata ci richiama una verità universale: chi di noi non è quasi sempre così impegnato a perseguire un dover essere che non lascia entrare spicchi di sole nella propria vita? Con questo film, Ishii ha dimostrato di non essere più soltanto un bambino prodigio ma un regista notevole. Aspettiamo, da tifosi, la sua grande opera. [Franco Picollo]





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