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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

Rokugatsu no hebi (六月の蛇, A Snake of June)

 

 

La X edizione dell’Asian Film Festival di Reggio Emilia (16-24 marzo 2012) dedica la retrospettiva a Tsukamoto Shin’ya, che sarà presente al Festival e riceverà un premio alla carriera. In occasione di tale importante evento, Sonatine pubblica le schede critiche di tutti i film di Tsukamoto, che andranno a configurare uno Speciale Tsukamoto sempre consultabile online.

 

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Rokugatsu no hebi (六月の蛇, A Snake of June). Regia, soggetto, sceneggiatura, scenografia, fotografia e montaggio: Tsukamoto Shin’ya. Musica: Ishikawa Chū. Interpreti e personaggi: Kurosawa Asuka (Tatsumi Rinko), Kōtari Yūji (Shigehiko), Tsukamoto Shin’ya (Iguchi), Fuwa Mansaku (negoziante di alimentari), Taguchi Tomorowo (redattore), Terajima Susumu (poliziotto), Hanahara Teruko (madre di Shigehiko). Produzione: Tsukamoto Shin’ya, Kawahara Shinichi per Kaijyu Theater. Durata: 77’. Anno di produzione: 2002. 
Giugno, stagione delle piogge. Rinko lavora in un centro di ascolto telefonico come consulente psichiatrica, è sposata con un uomo più anziano di lei, con il quale sembra avere un rapporto affettuoso, ma del tutto privo di passione. Un giorno riceve una busta che contiene alcune foto di lei impegnata in atti di autoerotismo. Gliele ha inviate Iguchi, un fotografo malato terminale di tumore che aveva convinto a non suicidarsi e che ora intende ricambiare il favore aiutando a sua volta la donna a liberarsi dalle proprie inibizioni. Con la minaccia di mostrare le foto al marito, la costringe a compiere azioni fino ad allora per lei impensabili, come mostrarsi in pubblico con abiti molto succinti o masturbarsi con un vibratore comandato a distanza da lui. Così facendo la donna riacquista a poco a poco coscienza del proprio corpo e della propria femminilità, allo stesso tempo Iguchi, osservandola, riesce anche a capire che è affetta da un tumore al seno, di cui lei non era a conoscenza.
Il marito, che intanto ha scoperto le foto ed ha seguito la moglie durante le sue “uscite”, è a sua volta coinvolto dal misterioso fotografo, che lo affronta accusandolo di scarsa sensibilità nei confronti della moglie (la quale non si decide a farsi asportare il tumore, per poter mantenere un aspetto perfetto).
 L’intervento dello sconosciuto finirà per essere liberatorio per entrambi i coniugi, che non solo addiverranno ad una maggiore autoconsapevolezza di sé, ma che, come conferma la scena finale, riusciranno a dare nuova energia al loro rapporto.
Come dice lo stesso Tuskamoto: «Il serpente è quello che tutte le donne hanno in corpo». A Snake of June è, in primo luogo, un ritratto di donna in bianco e blu, tributo alla bellezza e alle tante facce dell’universo femminile, incarnato da una irresistibile Kurosawa Asuka (diversi anni prima che interpretasse la malefica Aiko in Cold Fish di Sono Sion).
Il film, che vinse il premio speciale della Giuria al Festival del Cinema di Venezia del 2002, non sfugge alle tematiche classiche di Tsukamoto, che da sempre è concentrato sul corpo e sulle sue mutazioni. In Tetsuo la carne si faceva acciaio, qui, invece, il corpo è lacerato dall’interno, da una malattia che è una contaminazione altrettanto invasiva e sconvolgente. È un corpo destinato a essere mutilato, come testimonia l’inquadratura che non contiene per intero l’immagine della donna e taglia di netto a metà il suo volto, nella scena in cui Rinko esce “guidata” dall’uomo misterioso al telefono, entra in un bagno pubblico e si siede.
I corpi di marito e moglie sono in balia di una metropoli fredda e nera, che li comprime in angoli di metallo e cemento, e ne rappresenta visivamente la gelida distanza. La convivenza è “metallica”, le loro solitudini non si incontrano nei meandri ipermoderni della casa: lei aiuta gli altri con il suo sostegno telefonico, ma non sa aiutare se stessa; lui non la tocca, preferisce pulire ossessivamente vasche e lavandini, meglio il contatto con l’inerte materia che con la carne viva della moglie, che non riconosce più.
«Perché non fai quello che davvero vuoi?». C’è vita sotto la lastra di metallo e vetro. Ci sono emozioni umane forti, anche sgradevoli, dietro gli sguardi omologati e nascosti da occhiali pesanti. Ci vuole un occhio esterno che sappia cogliere e far riemergere ciò che è stato sepolto.
Tsukamoto – che interpreta un Mentore moribondo che accompagna i due protagonisti nel loro viaggio – conduce anche lo spettatore in un road movie delle sensazioni prima represse e poi risorte, un percorso di riconquista della carne sul cemento (dell’emozione sulla repressione), una marcia sofferta, ma infine vittoriosa, verso la riconquista dell’impulso di vita. Un gioco al massacro, un caos dal quale non si può che uscire trasformati.
A Snake of June è  un film sullo sguardo e quindi sul cinema, sul voyeurismo insito nell’atto di riprendere e sulle sue finalità: Iguchi è un fotografo che ruba immagini di intimità e che col ricatto, proprio tramite quelle immagini, induce la protagonista a mettersi in gioco, a riflettere e ad intraprendere un percorso di riscoperta di sé. È un viaggio doloroso e violento, ma efficace. Proprio a proposito di sguardo è degna di nota la sequenza – l’unica dal tratto decisamente onirico – nella quale Shigehiko si ritrova prigioniero in una stanza con altri uomini che indossano maschere a cono sul viso,  che costringono il loro sguardo e li obbligano ad osservare due giovani che fanno sesso. Anche l’atto del guardare è come se dovesse subire una sorta di “mutazione/mutilazione” che lo concentra sull’ossessione per la sessualità, spiraglio attraverso il quale potersi spingere fin dentro se stessi.
Nel suo essere un film sullo sguardo, A Snake of June è anche un film  sul desiderio e sulla sensualità. Proprio all’inizio, subito dopo aver  ricevuto la telefonata di Iguchi e averlo minacciato di chiamare la polizia per denunciare il ricatto, Rinko indietreggia in un corridoio della casa e si appoggia alla parete in vetro che lo delimita. L’immagine sdoppiata del suo viso – quello reale e quello riflesso – che ne risulta sembra voler intendere sin da subito che la donna, apparentemente controllata e perfetta, nasconde un altro lato dentro di sé. La riscoperta della sensualità di Rinko è un crescendo nel film. Tsukamoto la segue con riprese affannate e convulse mentre cammina con la gonna cortissima nei corridoi, oggetto degli sguardi dei presenti. Ne immortala il viso in primi piani angosciati e sguardi sofferenti, che via via si sciolgono, fino a concedersi in una rinnovata sicurezza data dalla consapevolezza del proprio essere. Fino ad un finale liberatorio che sancisce il superamento del voyeurismo unilaterale per sfociare nella condivisione e, quindi, nell’orgasmo. Dopo una struggente sequenza a tre sotto la pioggia battente, nella quale Rinko, ormai pienamente cosciente della propria carnalità, lascia che gli sguardi del fotografo e del marito percorrano il suo corpo, una serie di inquadrature “contengono” i due coniugi, che si stanno riavvicinando, come la scena finale confermerà. 
Un altro aspetto interessante del film è la costante presenza dell’acqua. Piove sempre in A Snake of June, sulla città nera, sui corpi dei personaggi, su simboliche piante di ortensie. L’acqua cola dietro pareti di vetro che incorniciano le figure umane, scroscia a cascata nei tombini. Nell’iconografia giapponese l’acqua rappresenta il canale verso l’ultraterreno. Non siamo in terra di fantasmi o esseri alieni, ma è certo che il cinema di Tsukamoto molto concede al fantastico, all’onirico. Ed anche in questo caso, il quadro d’insieme di esseri martoriati che si muovono in paesaggi metropolitani postmoderni, che si trasformano passando attraverso le sofferenze e la violenza di qualsiasi classica mutazione da supereroe (anche se in questo caso il mezzo è la sessualità), non può non far pensare anche a creature sovrumane, trasformate e consapevoli. L’incedere sicuro e ammiccante di Rinko, i suoi sguardi decisi, nella sua nuova veste di donna liberata, ricordano il finale di Tetsuo – The Bullet Man, quando l’uomo-macchina consapevole di sé e dei propri poteri, cammina sicuro in mezzo agli altri.  
In conclusione, sono d’accordo con chi (Pier Maria Bocchi su Film TV n.50/2003) ritiene che A Snake of June sia, in fondo, un film ottimistico, che esprime l’altruismo del regista. Il corpo è corrotto, siamo consapevoli del suo decadimento, così come dell’energia che scaturisce, in questo nostro cosmo malato, da un insopprimibile impulso di vita. [Claudia Bertolè]
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