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Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

Linda, Linda, Linda (リンダ リンダ リンダ , Linda, Linda, Linda)

                                                             La carica dei 101                                                            

I migliori film del cinema giapponese dal 2000 a oggi scelti dalla redazione di Sonatine
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Linda, Linda, Linda (リンダ リンダ リンダ , Linda, Linda, Linda). Regia: Yamashita Nobuhiro. Sceneggiatura: Mukai Kōsuke, Miyashita Masako, Yamashita Nobuhiro. Fotografia (colore): Ikeuchi Yoshihiro. Luci: Ōsaka Akio. Scenografia: Matsuo Fumiko. Montaggio: Miyajima Ryūji. Musica: Jame Iha. Suono: Koori Hiromichi. Interpreti e personaggi: Bae Doo-na (Son), Kashii Yū (Keiko), Maeda Aki (Kyōko), Sekine Shiori (Nozomi), Mimura Takayo (Rinko), Yukawa Shione (Moe), Yamazaki Yūko (Nakajima), Kōmoto Masahiro (professor Koyama), Fujii Kaori (professoressa Nakayama). Produzione: Negishi Hiroyuki, Sadai Yūji per Bitters End, Covers & Co, VAP/Cave. Durata: 114’ . Uscita nelle sale giapponesi: 23 luglio 2005.
Japanese Professional Movie Awards: Miglior regista.
Festival: Melbourne, London Lesbian and Gay Film Festival, New York, Seattle,  Toronto, Udine.
Reduci, causa un piccolo incidente e qualche dissidio interno, dello scioglimento della band liceale di cui facevano parte, la pianista Kei, la bassista Nozomi e la batterista Kyōko decidono di partecipare, nonostante tutto, al concerto che si terrà in occasione del festival scolastico, con una nuova band che realizzerà cover dei Blue Hearts, storico gruppo giapponese degli anni Ottanta-Novanta. A tale scopo, la caparbia e spesso scontrosa Kei si improvvisa chitarrista, ma non volendo assumersi anche il ruolo della cantante o affidare tale incarico a Rinko, cofondatrice del precedente gruppo con la quale ha litigato, decide di ingaggiarne una nuova ragazza con un sistema casuale. La sorte decreta che si tratti di Son, una studentessa coreana che, a causa del suo giapponese incerto, accetta la proposta senza averla realmente compresa. Dopo i chiarimenti e le esitazioni che ne conseguono, la simpatica e stralunata Son decide ugualmente di unirsi al gruppo, ovviando con grande dedizione alla scarsità delle proprie doti vocali. Dopo i primi disastri, prova dopo prova, le quattro studentesse non solo affinano le rispettive capacità esercitandosi individualmente, ma rafforzano soprattutto lo spirito di gruppo. In particolare, è Son a trarre maggiore giovamento dall’esperienza integrandosi in maniera più spontanea ed efficace nel contesto a lei estraneo, di quanto non le consentisse il desolato “club di cultura coreana” di cui sembra essere l’unico membro. La vicenda del gruppo si intreccia a frammenti delle storie private delle quattro protagoniste: la solare Kyōko è innamorata di un suo compagno del club di cucina, ma la timidezza di entrambi impedisce loro di dichiararsi reciprocamente; Son riceve a sua volta la dichiarazione di un altro studente, che goffamente le rivela il proprio amore in coreano; Kei ha rotto da poco con un musicista maggiorenne, il quale darà tuttavia una mano alla band improvvisata concedendo loro l’uso di una sala prove; per quanto riguarda la timida e riflessiva Nozomi, invece, sembra troppo occupata a dare una mano in famiglia, per concedersi altre distrazioni oltre alla band. Tra notturne sortite clandestine nella sala prove della scuola, piccoli incidenti, riflessioni esistenziali e qualche momento di svago, le quattro ragazze giungono stremate al giorno del concerto, al punto da restare addormentate all’ultimo ed essere così costrette a una corsa contro il tempo sotto una pioggia scrosciante per raggiungere la scuola. Giunto finalmente sul palco, il gruppo verrà battezzato sul momento da Son, che sceglie come nome “Paran Maum”, la traduzione coreana di “Blue Hearts”. La prova del quartetto, energica e vitale per quanto tecnicamente imperfetta, sarà accolta entusiasticamente dal pubblico, complice il brutto tempo che raduna tutta la scuola nella palestra adibita al concerto.
Seconda pellicola su commissione girata da Yamashita dopo il suo trasferimento da Osaka a Tokyo, Linda Linda Linda rappresenta forse il capitolo più importante della carriera del regista sino a quel momento, per la sua ineguagliata capacità di raggiungere un ideale punto di incontro tra la ruvida libertà dell’approccio underground delle prime opere e la confezione più levigata, ma spesso anche meno personale, di quelle successive. Nel rielaborare il soggetto propostogli, Yamashita si discosta in parte dall’universo che caratterizzava i film realizzati a Osaka: laddove questi erano incentrati prevalentemente su coppie di uomini venti-trentenni (o comunque coppie nelle quali era prevalente la componente maschile incarnata dall’attore feticcio Yamamoto Hiroshi), ora il regista si ritrova ad allargare lo spettro dei suoi personaggi a un quartetto di sole ragazze, protagoniste di un soggetto che, sulla carta, appare assai più convenzionale rispetto ai lavori degli esordi. A dispetto delle premesse, il cineasta riesce ad appropriarsi della sceneggiatura apportandovi alcune significative modifiche (una fra tutte l’aggiunta del personaggio della studentessa coreana interpretata dalla brava Bae Doo-na, vista in Sympathy for Mr. Vengeance di Park Chan-wook e The Host di Bong Joon-ho), e senza rinunciare allo stile minimalista e surreale che aveva caratterizzato i suoi lavori precedenti. L’attenuazione della componente spettacolare a favore di un approccio quasi documentaristico, la propensione alla digressione e l’attenzione a dettagli sfuggenti che spiegano molto di più sui personaggi di quanto non venga esplicitato nell’intreccio, concorrono nel costruire un ritratto efficace e plausibile di un’età, l’adolescenza, di cui l’autore mette in luce non solo i caratteri di unicità e irripetibilità, ma anche il suo essere un momento di passaggio effimero, irrazionale, indecifrabile e affatto privo di quel senso di alienazione onnipresente in altre pellicole del cineasta, quali Hazy Life e Ramblers. Yamashita dimostra inoltre notevole sensibilità nel riuscire a cogliere il punto di vista delle sue teenager, schivando i clichè del film adolescenziale per fare proprio il loro sentire, e riuscendo così nell’impresa di esprimere tutta l’importanza di momenti che potrebbero sembrare (e lo sono) cruciali solo agli occhi di un liceale. In questo senso, Linda Linda Linda è anche un film sulla bellezza delle illusioni: perché se tale è l’idea che gli anni delle scuole superiori non finiranno mai (come dichiara la studentessa ripresa in video all’inizio del film), è proprio la transitorietà insita a questa determinata età a costituirne la bellezza e l’importanza, come sembra sottolineare Nozomi in un momento di pausa dalle prove (durante il quale il personaggio sostiene che, nei loro ricordi, la preparazione risulterà un giorno più memorabile del concerto stesso). Se, come per quasi tutti i personaggi di Yamashita, i sogni sono soltanto illusioni (si pensi alle ambizioni commerciali dei protagonisti di No One’s Ark o al film che non viene girato di Ramblers), allora forse essi sono meno importanti del percorso che è rivolto alla loro realizzazione.
Tornano dunque in Linda Linda Linda, atmosfere e situazioni familiari al cinema di Yamashita, non da ultima la componente umoristica che trova nella straordinaria performance di Bae Doo-na, sorta di controparte più vitale e amabile, ma ugualmente attonita e stralunata, di Yamamoto Hiroshi (presente in un piccolo cammeo). Yamashita si dimostra abilissimo non solo nella costruzione dei personaggi principali e nella direzione delle loro giovani interpreti, ma anche nel contornarli di bizzarri e gustosissimi comprimari, a partire da quelli di Moe, la minuta studentessa dall’aria poco appariscente che esibisce una splendida voce; Nakajima, la fanciulla coi capelli tinti, la voce roca e l’aria trasandata che vende bibite e alcolici sul tetto della scuola e si rivela una raffinata chitarrista blues; e, infine, il giovane professor Koyama, nei cui occhi si legge la nostalgia per un passato evocato probabilmente dalle giovani musiciste e dalle musiche dei Blue Hearts.
Il regista ci presenta i personaggi e le loro storie con grande cura dei particolari, senza tralasciare l’importanza di momenti nei quali non accade nulla, e disseminando con discrezione scene emblematiche che descrivono i personaggi meglio di mille parole. Valga per tutte quella in cui il gruppo fa la spesa al supermercato prima di cenare a casa di Nozomi: l’ospite dirige le proprie compagne con aria esperta per il negozio, e quando una di esse torna con una confezione di tre teste d’aglio, la rimanda indietro dicendo che una sola è sufficiente. Questa unica scena apparentemente di scarsa rilevanza ci dona un ritratto praticamente completo del personaggio di Nozomi, sorella maggiore timida ma attenta, paziente ma decisa, responsabile e più matura delle coetanee, cresciuta negli spazi angusti e sovraffollati di una famiglia che, nonostante la sua generosità, evidentemente non può permettersi sprechi. Un discorso simile vale per il personaggio di Son, nella cui presentazione Yamashita dà prova del medesimo rifiuto della ridondanza: l’immagine della ragazza che dorme con gli auricolari nelle orecchie nel club di cultura coreana deserto la dice lunga sulla sua difficoltà di ambientarsi in un liceo giapponese, e il sorriso che le illumina il volto mentre torna alla sua band dopo aver scaricato il pretendente che tenta di rivolgersi a lei in coreano, evidenzia senza troppe parole come l’esperienza della band si riveli un mezzo di integrazione assai più naturale ed efficace di qualunque scambio forzatamente “interculturale”.
Anche i momenti di umorismo, i quali, come spesso accade nei primi film di Yamamoto, nascono da situazioni di imbarazzo, incomprensione ed estraniamento, giocano sulla medesima parsimonia e attenzione ai dettagli. Essi nascono per lo più in seno a inquadrature statiche caratterizzate da dialoghi rarefatti all’insegna delle difficoltà di comprensione tra gli interlocutori e da una composizione del quadro di geometrica semplicità (tutte caratteristiche che accomunano tre dei momenti più memorabili del film, ugualmente incentrati sulla figura attonita di Son: la sua prima apparizione, il dialogo col gestore del karaoke e la dichiarazione d’amore dello studente giapponese). Degna di menzione infine la bella colonna sonora firmata da James Iha, chitarrista degli Smashing Pumpkins. [Giacomo Calorio]
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