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Hajimari no michi (はじまりのみち, Dawn of a Filmaker: The Keisuke Kinoshita Story)

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Hajimari no michi (はじまりのみち, Dawn of a Filmaker: The Keisuke Kinoshita Story). Regia e sceneggiatura: Hara Keiichi. Fotografia: Ikeuchi Yoshihiro. Scenografia: Nishimura Takashi. Montaggio: Tachibana Yōji. Musica: Fuki Harumi. Suono: Suzuki Hajime. Interpreti e personaggi: Kase Ryō (Kinoshita Keisuke) , Tanaka Yuko (la madre), Santamaria Yūsuke (il fratello), Hamada Gaku (l’assistente) , Ohsugi Ren (Kidō Shirō), Miyazaki Aoi (narratore). Produzione: Ishizuka Yoshitaka, Aragaki Hirotaka per Shōchiku. Durata: 96’. Uscita nelle sale giapponesi: 1 giugno 2013. Girato in: HDCAM.
Links: Nicholas Vroman (A Page of Madness) 
Punteggio ★★

Prodotto dalla Shōchiku, in occasione del centenario della nascita di Kinoshita Keisuke, Hajimari no michi (letteralmente «la strada delle origini») parte da una curiosa prospettiva: raccontare della vita di un cineasta l’unico periodo in cui questi si allontanò dal cinema. Il film – di finzione, non si tratta di un documentario – prende le mosse dall’accusa che fu mossa al finale di Rikugun (Army), uscito nelle sale giapponesi nel dicembre del 1947, di non contribuire allo sforzo bellico. In quella scena Kinoshita mostrava il dolore di una madre – interpretata da una Tanaka Kinuyo, che i successivi film di Mizoguchi renderanno celebre anche in Occidente, ai vertici della sua carriera – che in strada tentava di affiancarsi a una parata militare al fine di vedere per un’ultima volta il figlio in partenza per la guerra. Messo così per qualche mese da parte, il cineasta prese la decisione di andare a far visita alla madre malata e, per salvarla dai bombardamenti, di accompagnarla, attraverso un lungo e difficile viaggio sulle montagne, in un luogo più sicuro. Insomma lo snodo drammatico è chiaro: dalla madre fittizia di Rikugun a quella reale. Buona parte della storia del film è riempita dal suddetto viaggio, la cui rappresentazione procede nei modi piuttosto scontati di uno sceneggiato televisivo, incline a una retorica di buoni sentimenti alquanto stucchevole e a un sentimentalismo di maniera (siamo dalle parti del “peggio” del cinema giapponese e ben lontani dall’ “intensità” dell’opera di Kinoshita). Si salva forse la scena – anche questa non priva di retorica – in cui l’operaio che accompagna nel suo viaggio Kinoshita – il quale non rivela a nessuno la sua identità professionale – gli chiede se abbia mai visto Rikugun. E poi gli racconta il suddetto finale – mentre il film ce ne mostra le immagini – con una tale partecipazione da commuovere alle lacrime lo stesso regista. Diciamolo: a salvare il film – condannato anche dalla recitazione “troppo in parte” del suo attore protagonista – sono probabilmente solo le immagini dei lavori di Kinoshita che scorrono a lungo, soprattutto nel rievocativo finale, e che condensano in una decina di minuti alcuni dei momenti più alti – come quelli di Ventiquattro occhi, Una tragedia giapponese, Carmen ritorna a casa, e La leggenda di Narayama – della carriera del regista [Dario Tomasi].

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