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SONATINE CLASSICS

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Mogura no uta sennū sōsakan REIJI ( 土竜の唄 潜入捜査官 REIJI, The Mole Song: Undercover Agent Reiji)

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Mogura no uta sennyū sōsakan REIJI  ( 土竜の唄 潜入捜査官 REIJI, The Mole Song: Undercover Agent Reiji). Regia: Miike Takashi. Sceneggiatura: Kudō Kankurō, tratta dall’omonimo manga di Takahashi Noboru. Montaggio: Yamashita Kenji. Fotografia: Kita Nobuyasu. Musica: Endō Kōji. Sonoro: Nakamura Jun, Shibasaki Kenji. Costumi: Maeda Yūya. Effetti speciali: Ohtagaki Kaori. Arredatore: Sakamoto Akira. Interpreti: Ikuta Toma, Naka Riisa, Yamada Takayuki, Kamiji Yusuke, Okamura Takashi, Tsutsumi Shinichi, Fukikoshi Mitsuru, Endo Kenichi, Minagawa Sarutoki, Ohsugi Ren, Iwaki Kōichi. Prodotto da: Julie Fujishima, Ichikawa Minami, Ishihara Takashi, Okuno Toshiaki, Tsuzuki Shin’ichirō, Maeda Shigeji, Saka Misako, Uehara Juichi. Produzione: Fuji Television Network, J Storm, OLM, Shogakukan, Toho Company. Durata: 130′ . Uscita nelle sale giapponesi: 15 febbraio 2014.
Punteggio: *** 

Anche se il 2013 pare averci confermato definitivamente come Miike Takashi si sia ormai assestato su una media di un paio di lavori l’anno, ciò che continua a lasciare impressionati sono, la sua immutata capacità di giocare con i generi cinematografici, (all’interno di un suo stesso film o nell’arco di un anno di lavoro) e quell’instancabile istinto fatto di tensione e talento che mantiene, qualitativamente parlando, la maggior parte della sua produzione su buoni livelli. Certamente quest’ultimo rischia di essere un discorso che può far storcere il naso ai molti nostalgici di quello spirito ancor più anarchico ed indipendente che caratterizzava il primo periodo di Miike.
Nel 2013, si diceva, Miike Takashi realizza soli due film, il primo è Wara no tate, thriller di spionaggio poliziesco dagli ammiccamenti più che palesi al genere blockbuster, il secondo è questo Mogura no uta che, diversamente dal primo, riesce a ravvivare l’antico spirito del nostro, con un risultato che lascia certamente soddisfatti.
Il giovane Kikukawa Reiji brilla per senso di giustizia ma un po’ meno nei risultati concreti: si è infatti diplomato all’Accademia di Polizia con il risultato più basso di sempre. Dopo esser diventato, suo malgrado, agente di polizia, riesce in breve tempo a farsi licenziare dal suo capo a causa di problemi disciplinari. In realtà il licenziamento è parte di un piano ben ordito da parte delle alte cariche della polizia: dovrà infatti infiltrarsi in una delle più temute famiglie yakuza della città per arrestare il boss Shuho Todoroki e porre fine ad un massiccio traffico di metanfetamine che rischia di fare molte vittime tra i giovani.
Tratto dal manga omonimo di Takahashi Noboru (che lo ha anche supervisionato in sede di scrittura) Mogura no uta è, in un certo senso, la risposta di Miike a Jigoku de naze warui di Sono Sion che, già nel suo essere duttilmente ricco di citazioni e rimandi a vari film del passato si poteva, a tratti, accostare al cinema di Miike, se non altro per il piglio creativo della proposta. I due film condividono infatti il medesimo spirito iconoclasta nei confronti dei generi cinematografici, anche se certamente il film di Sono percorre questo intento in modo più ossessivo lasciando meno spazio ad uno svolgimento lineare dei fatti. E proprio qui sta il punto: scelte più autoriali per Sono e più dirette (almeno a livello dello svolgimento degli eventi narrati) e quindi più accessibili per Miike, ma il risultato è sorprendentemente molto simile. Miike riesce infatti a dare al suo film un taglio  molto personale, accompagnando i suoi noti personaggi sopra le righe e molto ben interpretati, con split screen, sequenze animate (nel vivace e riuscitissimo prologo), oltre che con una fotografia assolutamente perfetta (frutto del già apprezzato lavoro di Kita Nobuyasu con Miike nel musicale Ai to Makoto, e poi in Crows Zero II, Ichimei, Nintama Rantarō fra gli altri). L’utilizzo di stereotipi è volutamente reso in modo marchiano ed i risultati sono esilaranti.
A proposito di ingarbugliare i principi delle regole cinematografiche va infatti riportato che il film abbraccia, narrativamente, almeno due diverse tipologie di registri: uno, comico, grottesco ed esilarante (nella sua prima parte) ed un altro più ponderato, quasi drammatico. Questa seconda parte  è anche quella che ha lasciato maggiormente perplessa la maggior parte della critica che ha visto questo cambio di registro come un affossamento del ritmo ed un abbandono dell’originalità. Va però detto che un così netto avvicendamento di registri senza clamorose falle è, già di per sé, prova di una davvero ben rodata padronanza registica, senza la quale si sarebbe rischiato il parossismo se non un vero e proprio malinteso rappresentato.
Degne di particolare nota, inoltre, le interpretazioni davvero molto buone di tutti gli attori (Miike riuscirebbe a far fare le cose più assurde, grottesche e senza senso anche ad un attore di teatro ), sui quali però spicca assolutamente Tsutsumi Shinichi (vero attore feticcio di Sabu negli anni novanta) nel ruolo del braccio destro del boss del clan Sukiyakai andando, tra l’altro, a fare il paio con l’altrettanto ottima prestazione dell’attore, proprio nel Jigoku de naze warui di cui sopra. [Fabio Rainelli]

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