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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

Tōkyō sonata (トウキョウソナタ, Tokyo Sonata)

SPECIALE YAKUSHO KŌJI

di Giacomo Calorio

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Tōkyō sonata (トウキョウソナタ,  Tokyo Sonata). Regia: Kurosawa Kiyoshi. Sceneggiatura: Kurosawa Kiyoshi, Tanaka Sachiko (da un soggetto di Max Mannix). Fotografia (colore): Ashizawa Akiko. Luci: Ichikawa Tokujū. Suono: Iwakura Masayuki. Scenografa: Maruo Tomoyuki, Matsumoto Chie. Costumi: Miyamoto Mase. Montaggio: Takahashi Koichi. Effetti speciali: Asano Shūji. Musiche: Hashimoto Kazumasa. Interpreti e personaggi: Kagawa Teruyuki (Sasaki Ryūhei), Koizumi Kyōko (Sasaki Megumi), Inowaki Kai (Sasaki Kenji), Koyanagi Yū (Sasaki Takashi), Tsuda Kanji (Kurosu), Igawa Haruka (Kaneko), Kojima Kazuya (Kobayashi), Yakusho Kōji (rapinatore). Produzione: Wouter Barendrecht, Kitō Yukie per Entertainment Farm e Fortissimo Films. Distribuzione: Regent Releasing. Durata: 119′; Uscita nelle sale giapponesi: 27 settembre 2008.
Asian Film Awards: Miglior Film, Miglior Sceneggiatura. Cannes Film Festival  2008 – Un certain regard: Premio della Giuria. Chicago International Film Festival 2008: Premio della Giuria. Hochi Film Awards: Migliore Attrice (Koizumi Kyōko). Kinema Junpo Awards: Migliore Attrice (Koizumi Kyōko), Miglior Attore Esordiente (Inowaki Kai). Mar del Plata Festival: Miglior Regista. Osaka Film Festival: Miglior Film, Miglior Regista. Utica Film Festival: Miglior Film Asiatico.Yokohama Film Festival: Miglior Fotografia.
Presentato in anteprima mondiale al Cannes Film Festival (17 maggio 2008). Altri festival: Chicago, Helsinki, New York, Rio de Janeiro,  São Paolo,  Tokyo, Toronto e altri
Sasaki Ryūhei svolge un incarico di responsabilità presso una rinomata azienda finché un giorno, di punto in bianco, la ditta decide di licenziarlo dopo aver adottato una strategia di delocalizzazione verso la Cina. Umiliato e atterrito dal repentino stravolgimento della propria vita, egli non trova il coraggio di rivelare l’accaduto alla moglie Megumi e ai due figli Takashi (il maggiore, indipendente e spesso fuori casa) e Kenji (il minore, in conflitto con un professore e attratto dallo studio del pianoforte). Come altri nella sua stessa situazione, Ryūhei inscena una parvenza di normalità seguitando a uscire di casa in giacca e cravatta in orario di lavoro, mentre in realtà trascorre le giornate a guardare nel vuoto, a cercare invano un impiego simile al precedente e a mangiare alla mensa dei senzatetto. Qui Ryūhei incontra Kurosu, un ex compagno di studi che, pur trovandosi nella sua stessa situazione, reagisce con sfrontata sicurezza di sé. Ammirato dalla sua capacità di fingersi un businessman oberato di lavoro di fronte alla società, ai familiari e a se stesso, Ryūhei tenta di seguirne l’esempio, ma rimane sconvolto quando l’amico, non riuscendo più a sopportare il peso delle proprie menzogne e della propria inesorabile deriva, si toglie la vita coinvolgendo nel gesto la consorte. Ad alimentare il senso di smarrimento e il terrore di perdere il proprio ruolo sociale (quello di pilastro portante della famiglia), concorre l’atteggiamento dei figli: Takashi si arruola nell’esercito statunitense senza consultare i genitori, mentre Kenji usa di nascosto i soldi destinati alla mensa scolastica per prendere lezioni di piano, ignorando un precedente divieto del padre. Allo stesso modo, anche Megumi coltiva insoddisfazioni e desideri di indipendenza (prendendo una patente di guida che non ha occasione di usare), senza manifestarli al marito. Dopo essere stato sorpreso dalla moglie, a sua insaputa, alla mensa dei poveri, Ryūhei scopre a sua volta l’attività nascosta del figlio minore e, nonostante la maestra di pianoforte Kaneko lo informi che Kenji è un genio, gli rinnova immotivatamente il proprio divieto pur di non perdere la faccia. Durante la lite che ne segue, Ryūhei spinge inavvertitamente Kenji dalle scale, senza tuttavia causargli gravi danni. Tutti questi eventi, tuttavia, portano Ryūhei a riconsiderare il proprio atteggiamento e il proprio ruolo, accettando, sempre di nascosto dai familiari, un impiego presso una ditta di pulizie. Un giorno, durante il lavoro, egli trova nel bagno di un centro commerciale una busta contenente una grossa somma di denaro, ma mentre fugge via col bottino (che poi deciderà di non intascare), è investito da un automobilista che lo lascia svenuto lungo il ciglio della strada. Quasi contemporaneamente, la moglie è presa in ostaggio da un ex fabbro improvvisatosi rapinatore a causa della crisi, mentre Kenji trascorre la notte in cella per essersi infilato di nascosto nel portabagagli di un autobus. Anche il figlio maggiore, di cui arrivano notizie per lettera dal fronte, ha vissuto un momento di crisi che l’ha portato ad abbandonare le armi per dedicarsi al sostegno della popolazione civile locale. Al termine della rocambolesca nottata, Ryūhei, Megumi e Kenji si riuniscono silenziosi a colazione, desiderosi di ripartire da capo secondo nuove premesse che porteranno all’accettazione del talento di Kenji.
A sei anni di distanza da Bright Future e a dodici da License to Live, dopo alcuni episodi poco ispirati nel campo dell’horror, Kurosawa si discosta nuovamente dai racconti di fantasmi per narrarci un’altra storia di universi familiari alla deriva, in quello che si presenta come il suo film maggiormente ancorato all’attualità. Il soggetto di Max Mannix, rivisto da Kurosawa insieme a Tanaka Sachiko, si colloca nella tradizione dello shomin-geki(dramma sulla gente comune), affrontando alcuni temi cardine della tradizione cinematografica giapponese quali lo smarrimento della figura paterna e la rispettiva perdita di autorità, l’insoddisfazione repressa delle mogli, i desideri di emancipazione dei figli, l’ipocrisia che prolifera sotto le forme e i rituali della famiglia tradizionale e, di rimando, della società di cui essa è parte. Come spesso accade nei film del regista, la disgregazione di una realtà apparentemente solida e sicura prende le mosse da un antefatto traumatico (il licenziamento di Sasaki, decretato sin dalla prima sequenza), improvviso e ineluttabile come i fantasmi di Pulse e il tifone su cui si apre il film. Anche questa volta è un agente esterno a intaccare l’apparente sicurezza del microcosmo in cui vivono i protagonisti, ma esso non assume le forme di fantasmi venuti da un altro mondo o di meduse fluorescenti che invadono i fiumi di Tokyo, bensì quelle assai più tangibili di nazioni “esterne” all’arcipelago giapponese quali la Cina e gli Stati Uniti, per quanto svuotate di ogni consistenza e ridotte a meri simboli del presente in cui viviamo. Infatti, in maniera più evidente rispetto allo stesso Pulse e ad altre opere di Kurosawa, in Tokyo Sonata l’evento traumatico affonda le radici in problemi attuali e concreti come la crisi economica o la guerra al terrorismo, ma più che a indagarne le cause e le dinamiche, il regista si dimostra, come suo solito, interessato esclusivamente ad analizzare gli effetti (non necessariamente negativi) che esso esercita sugli individui, nonché il modo in cui essi reagiscono a una crisi del tutto personale, per quanto innescata da quella economico-sociale. Nonostante lo sguardo distaccato e distante di Kurosawa lasci pensare altrimenti, il punto di vista di questo racconto corale è dunque quello del tutto privato dei protagonisti, che attraverso le loro coscienze sembrano quasi modellare lo spazio, il tempo e il suono dell’inquadratura secondo geometrie dal sapore simbolico. Valgano per tutte le immagini ricorrenti di un bivio situato nei pressi dell’abitazione della famiglia Sasaki, a suggerire affinità e divergenze tra i personaggi che ne percorrono le due strade in parallelo; quelle che ritraggono la famiglia a tavola al di là di uno scaffale che fraziona e ingabbia l’inquadratura dando corpo alla disgregazione del nucleo familiare e alla sua chiusura rispetto all’esterno; quelle ancora che pongono il percorso di un determinato personaggio parallelamente o perpendicolarmente a una fiumana di persone, come nelle due scene che efficacemente visualizzano l’esclusione di Ryūhei dal flusso di gente che si reca al lavoro, e l’inclusione di Kurosu nella folla dei disperati in cerca di cibo.
A partire da tale evento traumatico, Kurosawa ci descrive la reazione dei protagonisti allo stravolgimento della realtà di cui fanno parte, e con una certa vena di ottimismo anche le evoluzioni che essi intraprendono per riuscire ad affrontarla. Tuttavia, affinché si dischiudano delle possibilità di riuscita e la famiglia Sasaki possa davvero ripartire da zero come i suoi membri si propongono nel corso della travagliata nottata finale, Kurosawa suggerisce la necessità di lasciare da parte le ipocrisie e il fatalismo, e accettare la realtà con senso di responsabilità invece di ignorarla o tacerla lasciando che essa degeneri spingendo i personaggi alla deriva. Coerentemente con l’abitudine del regista a includere quadri nei quadri e a strutturare l’inquadratura su diversi livelli, in Tokyo Sonata assume una certa importanza la recita nella recita (sorretta dall’eccellente lavoro degli attori protagonisti, dei quali Kurosawa coglie abilmente le sfumature d’interpretazione), con personaggi che inscenano di fronte a se stessi, ai familiari e alla società, realtà inesistenti al solo scopo di nascondere la propria angoscia e le proprie debolezze. Senonché, è proprio l’irresponsabilità di tale atteggiamento la loro principale debolezza. Emblematiche in questo senso le figure di “cattivi maestri” costituite da Kurosu e dal professore di Kenji, che invitano rispettivamente Ryūhei e Kenji a ignorare la realtà, contrapposte alla figura positiva dell’insegnante di pianoforte, la quale spinge invece affinché essa venga affrontata e superata.
Anche a livello stilistico, Tokyo Sonata si pone in linea con le migliori opere di Kurosawa, mantenendo quello sguardo distante eppure mai freddo sulla realtà, frutto di una predilezione per il campo lungo, il piano sequenza, inquadrature statiche o basate su movimenti lineari e un impiego mai intrusivo delle musiche (cui il regista fa ricorso con discrezione e senza enfasi, preferendo talvolta elevare a commento sonoro i suoni diegetici). Di tale realtà, lo sguardo riflessivo del regista coglie gli aspetti più assurdi e angoscianti senza mai scomporsi, come a evidenziarne la paradossale normalità, e ce ne fornisce una visione che oscilla tra il surrealismo e l’iperrealismo (esemplare l’immagine degli impiegati in giacca e cravatta oziosamente appollaiati su cubi di cemento). Ritroviamo inoltre in Tokyo Sonata alcune figure assai familiari del cinema di Kurosawa, come le carrellate laterali su strade invase da scatoloni sui quali i personaggi incespicano o sfogano la loro rabbia, o l’impassibilità della macchina da presa di fronte a corpi che cadono in movimento verticale.
Senz’altro una delle opere più significative realizzate dal Kurosawa degli anni Duemila, la cui unica stonatura, insieme al trattamento relativamente superficiale riservato al personaggio del figlio maggiore, pare essere la digressione sul rapinatore interpretato da Yakusho Kōji, attore feticcio del regista la cui prova risulta in questo caso sopra le righe e, in una certa misura, superflua. Vero è che il sequestro di Megumi e la sua grottesca ed effimera fuga col rapinatore donano al film un senso di divertita leggerezza memore delle pellicole più libere e fantasiose di Kurosawa, come Charisma e Doppelganger, ma si ha l’impressione che, senza, l’economia del film ne avrebbe guadagnato [Giacomo Calorio].
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