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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

ODD OBSESSION (Kagi), ICHIKAWA Kon, 1959

VERSIONE RESTAURATA 

82° FESTIVAL DEL CINEMA DI VENEZIA 2025

di Valerio Costanzia

kagi

Proiettato a Venezia Classici 2025 nella versione restaurata a cura della Kadokawa Corporation, Kagi è la trasposizione cinematografica del romanzo omonimo di Tanizaki Jun’ichirō pubblicato nel 1956 (in Italia, con il titolo La chiave, il romanzo esce nel 1963 per Bompiani, con traduzione di Toguchi Satoko e prefazione di Geno Pampaloni), un testo classico della letteratura giapponese del Novecento portato sul grande schermo, nel 1959, da uno degli autori più significativi della cinematografia nipponica: Ichikawa Kon. Il regista de L’arpa birmana (Biruma no tategoto, 1956) e Fuochi nella pianura (Nobi, 1959) − tra i capolavori del cinema di denuncia degli orrori della guerra − si è distinto nel corso della propria (eclettica) carriera in una serie di adattamenti cinematografici di importanti opere letterarie realizzate con la preziosa collaborazione della sceneggiatrice Wada Natto (nonché moglie del regista). Oltre a Tanizaki, del quale realizzerà anche la versione cinematografica di Neve sottile (Sasame Yuki, 1983), Ichikawa e Wada si sono cimentati con altri numerosi autori tra cui Nihonbashi (1956), da Izumi Kyōka; Shokei no heya (1956, La stanza della punizione) da Ishihara Shintarō; Enjō (1958, Conflagrazione) da Mishima Yukio; Hakai (1962, Il comandamento infranto) da Shimakazi Tōson [per un approfondimento rimandiamo alla scheda di Dario Tomasi, Ichikawa Kon, Enciclopedia Treccani]. Presentato a Cannes nel 1960 alla 13° edizione del Festival, Kagi si aggiudica il Gran Premio della Giuria. 

Kenmochi – un anziano antiquario sposato con Ikuko, una donna molto più giovane di lui – si rende conto che la propria virilità non è più quella di un tempo. Per trovare rimedio a questa situazione, Kenmochi ricorre a una soluzione morbosa: spingere la propria moglie nelle braccia del giovane Kimura, a sua volta fidanzato con la figlia Toshiko, in modo tale che la gelosia provata accenda nuovamente la sua energia sessuale ormai sopita. Si innesca così una torbida liaison a quattro che avrà un tragico epilogo.        

Kagi di Tanizaki è stato portato più volte sullo schermo. Oltre a quella di Ichikawa sono ben 6 le versioni tratte dal romanzo: Kagi (The Key) di Kumashiro Tatsumi, Giappone 1974; Kagi di Kimata Akitaka e Wakamatsu Kôji, Giappone 1983; La chiave di Tinto Brass, Italia 1983; Kagi di Ikeda Toshiharu, Giappone 1997; The Key di Jefery Levy, USA 2014; The Key-Professor’s Pleasure (Kagi) di Inoue Hiroki, 2022. 

La più nota, almeno in Occidente, è la versione di Brass (il film italiano con il maggiore incasso nella stagione 1983-84) prodotta da Giovanni Bertolucci e con protagonista Stefania Sandrelli. La pellicola di Brass è conforme allo stile licenzioso, leggero e godereccio del regista veneziano a scapito della dimensione angosciante e morbosa che caratterizza la versione di Ichikawa. Ma, soprattutto, Brass sposta il tema centrale del film e del romanzo: non è la sofferta impotenza sessuale del protagonista (l’antiquario Kenmochi) a indurlo alla scrittura del diario e ad architettare la liaison a quattro ma l’ardore sessuale e la sfrenata perversione del professor Rolfe (così si chiama il protagonista nel film di Brass) che accusa la moglie di essere eccessivamente pudica e quindi di limitare e castrare le sue pulsioni sessuali che non sembrano minimamente messe a repentaglio da una disfunzione sessuale come invece emerge sia nel romanzo Tanizaki sia nel film di Ichikawa. Pur mantenendo l’escamotage del doppio diario (cosa che non accade, come vedremo, nella trasposizione di Ichikawa) nel film di Brass si perde il senso più profondo dell’opera di Tanizaki, ovvero il senso e il valore del libro – come sottolinea Geno Pampaloni nell’introduzione all’edizione italiana del romanzo ricordata sopra – «non stanno né nel dato erotico, né nella sua sublimazione decadentistica, né nel paradigma un po’ eccentrico, fuori del comune, di una “crisi”, ma stanno proprio nella sua qualità letteraria, nella squisita sottigliezza psicologica, nella inesauribile ricchezza di sfumature, nella sua delicata pazienza flaubertiana di analisi e di rappresentazione».

Dalla pagina allo schermo

Ma torniamo alla versione di Ichikawa. Il confronto con il testo di Tanizaki mette in luce delle differenze significative – legittime, ovviamente, in qualsiasi trasposizione che non sia banalmente un calco dell’opera da cui è tratto il film – ma che ci permettono di aprire delle importanti riflessioni sull’approccio del regista e sulla natura stessa del linguaggio e dei codici della messa in scena. Com’è noto la struttura narrativa del romanzo di Tanizaki poggia sull’artificio retorico della doppia scrittura diaristica che entrambi i protagonisti – Kenmochi e Ikuko – praticano all’insaputa (apparentemente) l’uno dell’altra. In realtà Kenmochi fa in modo che la moglie scopra il suo diario lasciando in vista la chiave del cassetto dove è riposto:

«Anche se io ho diversi nascondigli per la chiave del cassetto dove tengo questo diario e di tanto in tanto li cambio, una donna come lei può averli già scoperti tutti. E poi, senza affaticarsi a trovare i nascondigli, è facile procurarsi una copia della chiave… Ho detto che “non voglio darmi pensiero”, ma forse di darmi pensiero ho già smesso da parecchio tempo; forse dentro di me speravo che lo leggesse. E allora, perché chiudere il cassetto e nascondere la chiave?»

Dall’altro lato, Ikuko è consapevole che il marito legga il proprio diario, anzi, per esserne certa mette in pratica un piccolo stratagemma: 

«Debbo stare più attenta. Supponiamo che egli abbia già indovinato che tengo un diario: che cosa posso farci? […] Dopo averci a lungo pensato, ho deciso di tagliare un pezzo di scotch del numero 600 (lungo 5 centimetri e 3 millimetri) e di usarlo per sigillare la copertina del taccuino. Insomma, non credo che egli possa leggere il mio diario senza lasciar traccia. […] Non c’è il minimo dubbio: mio marito ha letto il diario. Devo smettere, dunque?» 

La struttura narrativa del romanzo si articola quindi, prendendo a prestito la sintagmatica di Metz, come un sintagma parallelo composto dalla due voci narranti dei rispettivi diari che progrediscono cronologicamente scandite dalle date che aprono ciascun capitolo del romanzo (da Capodanno all’11 giugno). La scrittura monologante di Tanizaki si presenta in realtà come un dialogo a distanza tra i due, possedendo «tutta l’immediatezza del racconto in prima persona, e tutta la morbida profondità e le dissolvenze del romanzo epistolare» (Geno Pampaloni). Non solo, ma spesso nella scrittura in prima persona sia Kenmochi sia Ikuko passano dalla narrazione indiretta a quella diretta riportando, ovviamente tra virgolette, battute pronunciate dall’altro partner:

«Io non dicevo nulla, e ho spento la lampada. Lui ha teso la mano, cercando l’interruttore, ma io ho respinto la lampada. “Per piacere,” implorava. “Fammi guardare ancora, ti prego…” Annaspava nel buio, ma non è riuscito a trovare la lampada, e alla fine ha rinunciato… Un abbraccio insolitamente lungo…».

Le pagine dei due diari scorrono parallele mentre i due protagonisti si passano il testimone (la penna) l’un l’altra come in una staffetta in cui però ciascun personaggio è portatore/portatrice di una propria verità che, pagina dopo pagina, si deformano «reciprocamente nello specchio dell’inganno, si moltiplicano, proliferano, s’intrecciano come una colonia di microbi, creano un mosaico abnorme di “non verità” sotto il quale la realtà dei fatti è irreperibile.» (Geno Pampaloni).  

Da questi presupposti è naturale immaginarsi la difficoltà di rendere in immagini la struttura del romanzo di Tanizaki, un’opera che mette a dura prova qualsiasi approccio tradizionale volto a tradurre il testo letterario in un testo cinematografico, a meno di comporre una serie di macro-sequenze, una per ciascun capitolo del romanzo, in cui sulla scrittura diaristica si innervano una serie di flashback legati alle situazioni descritte e ai virgolettati di cui si accennava sopra. Oppure ricorrendo a scelte estetiche e formali affascinanti come quella adottata, per esempio, da Jim Jarmush in Paterson in cui la parola scritta si materializza sullo schermo, una doppia scrittura che si riverbera sulle immagini. Scelte che vanno nella direzione di un cinema moderno che è ormai alle porte (Kagi è del 1959) in cui la dimensione drammaturgica e la struttura narrativa classica viene messa in discussione. 

Ichikawa, pur essendo consapevole della straordinaria forza narrativa della forma diaristica, compie una scelta radicale: elimina del tutto i diari e sposta la drammaturgia su un côté dark, inserendo anche un nuovo personaggio (la cameriera Hana) che avrà un ruolo determinante nella conclusione tragica della vicenda. In una intervista in Eiga Hyōron, Ichikawa afferma di essersi allontanato dal romanzo originale per ricercare «elementi drammatici diversi da quelli del romanzo originale. Innanzitutto, si è scelto un motivo negativo, e il tema è quello di una commedia nera, con omicidio. La negatività non si disperde. Si accumula nella mente. Quando si è depressi e si deve prendere una decisione, si cerca di sfogarsi in modo esplosivo. E negativamente. In altre parole, i personaggi sono fissati su una forma chiamata “intento di uccidere”. Quindi, i motivi finiscono per essere legati al tema.»  Non è un caso, quindi, che il titolo in inglese, Odd Obsession (letteralmente “bizzarra/singolare/strana ossessione”) sia molto più calzante, come hanno rilevato diversi critici, rispetto a La chiave, oggetto che da preziosa custode del diario diventa, nel film di Ichikawa, più prosaicamente la chiave del cancello del retro della casa che Ikuko consegna all’amante Kimura per entrare di nascosto.

Da un punto di vista stilistico e formale, Ichikawa, nonostante faccia parte della generazione del cinema classico giapponese, adotta alcune soluzioni formali e narrative che sembrano apparentarlo alle varie nouvelle vagues tra cui, ovviamente, la Nuberu Bagu nipponica che di lì a poco cambieranno in modo radicale l’estetica del cinema. Prendiamo l’incipit straniante, per esempio, girato con un inusuale camera look in cui Kimura, davanti a una lavagna nera che riproduce il disegno del sistema nervoso umano, si lancia in una prolusione medico-scientifica, rivolta cinicamente a noi spettatori, sul processo di decadimento fisico e cerebrale del corpo umano anticipando così in parte uno dei temi del film. Sempre nell’incipit, senza soluzione di continuità, la narrazione e il punto di vista mutano improvvisamente quando ci accorgiamo di essere già parte del racconto ovvero nello studio medico di Kimura e alla presenza di Kenmochi con il risultato di creare una sequenza fortemente decontestualizza rispetto alla drammaturgia classica che avrebbe richiesto uno stacco o perlomeno una dissolvenza per marcare la differenza. 

Oppure le inquadrature e i punti di vista anomali come quelli della sequenza dei titoli di testa con la macchina da presa collocata sotto il tram che trasporta Kenmochi quasi a rimarcare il contrasto tra l’andatura incerta e claudicante dell’anziano protagonista e la perfezione meccanica del mezzo di trasporto. Un parallelo, quello tra prestanza fisica e potenza meccanica ripreso anche più avanti, con un tono decisamente più ironico, quando le effusioni sessuali tra Kimura e Ikuko sono rafforzate semanticamente da una serie di inquadrature che esulano dalla narrazione e che mostrano una serie di vagoni ferroviari che si incastrano l’uno all’altro. Un altro aspetto curioso che va ancora una volta nella direzione di uno straniamento “disturbante” sono i diversi fermo immagine che sembrano non avere nessuna funzionalità narrativa ma che agiscono a livello discorsivo, come per fermare la visione dello spettatore. Anche la scelta del formato widescreen, per un film girato quasi esclusivamente in interni, appare volutamente provocatoria, una frammentazione dello spazio che sembra a tratti caotica e claustrofobica.  

Nel complesso Ichikawa mette in scena una trasposizione del romanzo di Tanizaki decisamente inaspettata, lo “tradisce” nella struttura diaristica innestando su di essa una dark comedy che, pur mantenendo l’aspetto morboso, voyeuristico e feticista di Kagi, se ne allontana restituendoci un’opera originale e affascinante. Chiudiamo ricordando che Ikuko e Kimura sono interpretati rispettivamente da Kyō Machiko e Nakadai Tatsuya, tra i più importanti e significativi attori giapponesi, protagonisti di numerosi capolavori firmati da Kurosawa, Mizoguchi, Naruse, Kobayashi.       


Titolo originale: 鍵 (Kagi); regia: Ichikawa Kon; soggetto: La chiave di Tanizaki Jun’ichirō; sceneggiatura: Hasebe Keiji, Ichikawa Kon, Wada Natto; fotografia: Miyagawa Kazuo; montaggio: Fujii Hiroaki, Ichikawa Kon, Nakashizu Tatsuji; scenografia: Shimogawara Tomoo; musica: Akutagawa Yasushi; interpreti: Kyō Machiko (Kenmochi Ikuko), Nakamura II Ganjirō (Kenmochi Kenji), Kanō Junko (Toshiko), Nakadai Tatsuya (Kimura), Hamamura Jun (dott. Sōma), Kitabayashi Tanie (Hana), Kurata Mayumi (Koike), Sazanka Kyū (venditore), Sugai Ichirō (massaggiatore), Ushio Mantarō (dott. Kodama); produzione: Fujii Hiroaki, Nagata Masaichi per Daei; durata: 96’; uscita in Giappone: 23 giugno 1959; Gran Premio della Giuria al 13° Festival di Cannes del 1960

 

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