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SONATINE CLASSICS

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Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

Kyōto uzumasa monogatari (京都太秦物語 , Kyoto Story)

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Kyōto Uzumasa monogatari (京都太秦物語 , Kyoto Story). Regia: Yamada Yōji, Abe Tsutomu. Sceneggiatura: Yamada Yōji, Tomoaki Sasae. Fotografia: Chikamori Masashi. Scenografia: Nishimura Takashi. Montaggio: Ishijima Kazuhide. Musica: Fūki Harumi. Interpreti: Ebise Hana, USA, Tanaka Sōtarō. Produzione: Yamamoto Ichirō per Shōchiku. Durata: 90′. Uscita nelle sale giapponesi: 18 settembre 2010.
Link: Sito ufficiale – Massimo Causo (Sentieri selvaggi) – Hollywood Reporter Berlin Film Festival 2010 (catalogo) – Tokyoreporter
Punteggio ★★★   
Kyoko (Ebise Hana) vive con i genitori, li aiuta nella gestione della lavanderia di famiglia e fa la bibliotecaria part time. Nel negozio/casa/famiglia accanto, Kota  (USA) insegue il sogno di diventare un attore comico sperando di non dover un giorno prendere in mano il negozio di tofu di famiglia. I due si conoscono fin da bambini e, più che amarsi appassionatamente, sono di fatto “promessi” l’un l’altro, con Kota che pensa solo ad affermarsi e Kyoko che lo aspetta e lo sostiene pazientemente. In questo quadro solido ma statico, irrompe un giovane professore di Tokyo (Tanaka Sōtarō) venuto a Kyoto per sviluppare le sue ricerche sui caratteri originari cinesi  che con idealismo e ingenua passione si innamora di Kyoko e le propone di partire con lui per Tokyo e di lì per la Cina. Kyoko è tentata da questo amore puro ma ciò entra in contrasto con l'”impegno” fra famiglie …
Nato da un progetto di collaborazione tra Yamada e l’Università Ritsumeikan di Kyoto dove è stato visiting professor, il film è realizzato in collaborazione con 22 studenti della facoltà di arte e cinema e cofirmato da Abe Tsutomu, assistente storico di Yamada. 
Il plot da solo non è sufficiente per rendere conto del significato del film. Occore partire dal titolo originale, che si potrebbe tradurre con “Storie della strada Uzumasa di Kyōto”. La Uzumasa Daiei era infatti la famosa strada commerciale di Kyoto che, come dice il nome stesso, ospitava gli studi della Daiei, una delle grandi case di produzione cinematografica dell’epoca d’oro del cinema giapponese del secondo dopoguerra. Fra le sue realizzazioni occorre ricordare non solo capovalori assoluti come Rashōmon e Ugetsu monogatari ma anche famosissime serie di intrattenimento come Gamera e Zatōichi. Dopo un primo fallimento nel 1971, risorse e realizzò ancora vari film interessanti, fra cui Dead or Alive di Miike Takashi e Pulse di Kurosawa Kiyoshi, e venne definitivamente comprata e fusa nella Kadokawa nel 2002.
Attraverso tocchi leggeri e discreti, la storia sentimentale si intreccia ripetutamente con scorci del passato degli studi Daiei, del cinema giapponese e della città stessa. In certi casi si tratta di interviste, in altri di riprese suggestive, ma sempre ciò che emerge è la palpabile e coinvolgente nostalgia per i tempi d’oro del cinema giapponese e l’amore per la città. Ma c’è anche forse qualcosa di più. Yamada sembra volerci raccontare una storia che avrebbe potuto essere raccontata proprio da un film della Daiei degli anni ’50 o ’60, una storia popolare giapponese. Non è un caso che il film sia stato presentato al Festival di Berlino insieme al più maturo Otōto (About Her Brother, 2010). Entrambi propongono infatti, seppur in forma diversa, i principali temi del cinema di Yamada: i buoni sentimenti e il coraggio di affermarli anche oggi, la centralità della famiglia, il rapporto intergenerazionale, la maggior maturità e autonomia psicologica delle donne in un mondo declinato al maschile, il peso e il valore dell’impegno morale in una società chiusa. In ultima istanza, il film, che ci giunge sul piano visivo ed emotivo come un canto d’amore per Kyoto cui è impossibile sottrarsi,  può essere visto come uno schizzo, leggero ma struggente, di un unico tema e cioè il rapporto tra passato e presente dei valori tradizionali giapponesi, che se da un lato si vanno dissolvendo nella attuale travagliata modernità, dall’altro continuano a connotare il modo di sentire dei giapponesi anche nei nuovi assetti sociali. In questo senso, la figura più emblematica è proprio Kota, il figlio della famiglia di produttori di tofu (impersonato non a caso da un componente degli EXILE, uno dei più famosi gruppi pop giapponesi) che si danna per cercare di sfondare nel mondo dello spettacolo ma finirà per mettere la “testa a posto” per continuare l’attività di famiglia. [Franco Picollo]

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